Da qualche parte, James Ballard ha detto che in un museo ci si può innamorare, al contrario di un
un aeroporto dove innamorarsi è impossibile. Ballard non specifica però di chi, di cosa e neanche
quando si sia innamorato, forse perché è difficile parlare di quello che ci sta più a cuore. Non è
quindi mia intenzione inoltrarmi in una comparazione tra le differenze qualitative-percettive-concettuali
attivate da un museo rispetto a quelle attivate da un aeroporto, indagate per altro in brillanti
saggi specialistici filosofici e sociologici. Ciò che mi preme è, se mai, tentare dire qualcosa circa
uno stato di innamoramento a-specifico che il museo può favorire.
Nell’innamoramento c’è un momento in cui si è consapevoli dello sguardo di qualcuno e quando
succede, si è sorpresi dal percepire all’improvviso che l’involucro che ci avvolgeva e ci rendeva
padroni di noi stessi, ha una falla. Ci si sente scoperti, messi in pericolo, sul piano della nostra
identità e tuttavia non si può più ignorare o censurare la nuova “presenza” ritraendosi da essa
fino a tornare allo
status quo protetto di prima.
Il museo è un luogo dove si esercita lo sguardo ad un alto livello di consapevolezza. Non solo
quello che si posa sulle opere, ma anche quello che le opere rivolgono verso chi guarda.
Succedere di recarsi in un museo per i motivi più diversi, come addetti ai lavori ma il più delle
volte come pubblico eterogeneo senza una qualifica o uno scopo specifico, in ogni caso, è probabile
trovarsi irretiti dall’alta densità di sguardi che le opere rimandano con la loro presenza. Può accadere
abbastanza facilmente che un’opera sopra le altre totalizzi l’attenzione, senza un motivo apparente.
Ci si chiede allora, non senza una vertigine, chi sia in effetti il soggetto interrogante tra
noi e l’opera ed entriamo in uno spazio enigmatico che sposta l’asse equilibrio gerarchico tra soggetto
che osserva e l’oggetto osservato. Si passa da un io guardo a un reciproco “guardarsi”. Si si
avverte un’allerta totale di sé molto vicina ai sintomi disorientanti dell’innamoramento. Si penetra
in una area poco definibile dove ogni parola nel suo potere di distinzione è inappropriata a dire.
Si apre un varco che una volta intravisto non si desidera sigillare nuovamente.
Ci riferiamo alle due sale centrali e contigue, cuore pulsante della mostra
Mark Wallinger Mark (in
corso al Centro d’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato). A differenza degli altri spazi dove
sono impiegati altri medium come video o fotografie…, esse sono dominate dai bianchi e i neri di
una pittura stesa con gioiosa velocità. Ricordiamo che la pittura, allontanata volontariamente dall’artista
dalla metà degli anni Novanta, qui trova una motivazione totalmente rinnovata di esistenza.
Più in dettaglio diciamo che la prima sala, in ordine di percorso, è tappezzata da una serie di
tele di grandezza omogenea costruite su quella che Wallinger definisce una variante “darwiniana”
dell’uomo vitruviano raffigurato da Leonardo. Le tele misurano così 180x260, raddoppiate in altezza
in relazione alla vastità e altezza del nuovo studio di Wallinger situato in una vecchia fabbrica
di materiali bellici. Così proporzionate esse accolgono la serie degli
id Paintings (2015), ovvero
“l’altra faccia” dei
Self Potraits (2007-2015) esposti nella sala seguente e cronologicamente antecedenti.
Mark Wallinger, Self-Portrait (Freehand 69), 2013
Acrylic on canvas, 183 x 122 cm. Ph.Okno studio
Negli
id Paintings, la pittura è mossa da una azione contemporaneamente centrifuga e centripeta,
impregnata da una dinamica primordiale fatta di segni che conservano l’energia del movimento
compiuto sulla tela dall’artista. Wallinger entra direttamente nella pittura con entrambe le mani
costruendo immagini in formazione fatte da un labirinto di segni e da una moltiplicazione di impronte.
La materia pittorica è sollecitata da un conato ripetuto verso una forma mai raggiunta ma è
proprio il suo essere tumultuoso a far intravedere il grande potenziale di tutte le forme possibili
racchiuse in essa. Forse per questo nel loro insieme, le dodici tele monumentali esposte creano un
ambiente carico di uno stupore primordiale come fossero le Grotte di Lascaux della “pittura.” I
segni tracciati benché nebulosi nel loro aspetto seguono un percorso vincolato da un principio
d’ordine imprescindibile fissato dalla simmetria speculare che li organizza lungo l’intero asse verticale
della tela e che riflette quella del corpo umano. Con esso tutte le tele condividono una spina
dorsale o asse centrale di simmetria di irradiamento/convergenza. E proprio in virtù di questo
vincolo assiale simmetrico gli
id Paintings si presentano intenzionalmente anche come gigantesche
macchie di Rorschach offerte alle interpretazioni proiettive del pubblico. La rete di scambio di
sguardi tra opera e spettatore si infittisce ad ogni tela, ogni volta in cui l’artista scrive e riscrive in
esse la dinamica vitale e inarrestabile che si sprigiona nel rapporto mai sopito tra ordine e caos,
dalla preistoria al dopo- storia e viceversa.
Nel percorso offerto a Prato si ha la sensazione di transitare dal manifestarsi di un forza colta nel
suo aspetto primordiale, ribollente e sorgivo, verso una organizzazione formale della stessa. Siamo
invitati a procedere secondo una lettura che va dall’origine indistinta alla forma distinta. Così fece
Adamo all’indomani della sua stessa apparizione nel mondo. Adamo, per simmetria o ad imitazione
del Creatore, per primo disse Io e diede un nome e un ordine a tutte le cose create.
Nella sala successiva, sulla destra troviamo, appuntate precariamente alla parete come un promemoria,
le fotografie di due mani, gli indici rivolti l’uno verso l’altro alla maniera dei celebri indici
di Michelangelo nella volta della Sistina. Sono in realtà la destra e la sinistra di Wallinger riprese
con un Iphone,
Ego (2016). Un
Ego autogenerato che a sua volta fronteggia
Adam(2003), una lunga
poesia riportata con caratteri trasferibili sulla parete opposta. E
Adam a sua volta è una poesia
ready-made fatta di altrettanti incipit di poesie di autori inglesi tra otto e novecento. Ciascun capoverso
di
Adam rimanda ad azioni, pulsioni, visioni, stati d’animo che si richiamano in una declinazione
infinitibile dell'io.
Adam inizia con:
I am monarch of all I survey (
Io sono il monarca di tutto ciò
che osservo) e termina con
I wonder do you feel to-day. (Io mi chiedo, ti senti oggi? oppure
Mi chiedo come ti senti oggi ). Questi versi seguono l’ordine alfabetico dalla A alla W, una coincidenza casuale
o voluta con le iniziali del cognome di Wallinger?
Io è il principio stesso di identità di quella identità che qui si mostra con entrambi i versanti di
singolare-collettivo, quell’io plurale che ha parlato la lingua della poesia e che continuerà a risvegliarsi
nel tempo ad ogni nuovo soggetto-poeta, in questo caso, Wallinger.
A chi si riferisce l’ io, io, io, io, che risuona dalla parete opposta tappezzata dai quadri che riportano
una unica iconica, la I maiuscola (io in inglese) dei
Self Potraits? A quello dell’artista, ma anche
ad un io collettivo, la cui forma fissata a-priori in un carattere tipografico è tuttavia passibile di
mutazioni continue. Le tele dei Self Potraits sono infatti diversificate tra loro per misura, per carattere
tipografico adottato e per esecuzione pittorica. Il nero avorio della pittura passa in questi
dipinti da stesure compatte finalizzate a stabilire i contorni geometrici del carattere tipografico
adottato a stesure liquefatte che portano le stesse ai limiti dell’evanescenza. Un solo soggetto crea
un atlante di varianti. L’io è un fascio di singolarità diverse.
Nel loro insieme le I sembrano una dimostrazione figurata del teorema leibniziano degli indiscernibili.
Nessuna foglia è identica all’altra. Tutte sono varianti di uno stesso soggetto comune. A
questa vincolo di “serialità differente” si uniforma anche
Self (Symbol) (2017),la grande I che campeggia
solitaria su un plinto al centro della stanza. Anche se presentata come pezzo unico non è
però l’unica ad esistere, perché ha un piccolo sciame di realizzazioni consimili derivanti da altre
fonti tipografiche come ad esempio Self (Cambria), 2014 Self (Stencil) 2015, il Self (Sentury) 2014
tutte alte 180 cm. come l’artista. In questo andirivieni l’Io non è negato bensì articolato nella reiterazione.
Non è isolato in se stesso, ma posto in dialogo con altri soggetti. Per esistere deve essere
dotato del conforto di un orizzonte personale. Un orizzonte che può essere più o meno angusto o
largo, basti pensare a quello dalla dilatazione indefinibile tracciato da
Mark (2010), la scritta in gesso
del proprio nome apposta sui mattoni di Londra e documentata in mostra con una serie di diapositive.
Mark Wallinger, id Painting 50, 2015
Acrylic on canvas, 360 x 180 cm.
La lettura di due spazi soltanto sull'intera mostra è sufficiente a rilevare la qualità speculativa,
speculare, il ruolo bilaterale metamorfico e metaforico, attivo nell’opera di Wallinger. Le pieghe e
i risvolti delle questioni poste sono simili ai meandri di un labirinto mentale-sensoriale-culturale
che è tanto suo quanto nostro. Non a caso il labirinto nelle sue molteplici versioni iconografiche
(da Pistoia a Otranto a Chartres …) è stato uno dei temi affrontati da Wallinger per un lavoro su
Londra, realizzato su placche di metallo smaltato e disseminato nelle stazioni della metropolitana.
Ogni lavoro di Wallinger è prossimo e lontano, riporta a galla visoni sepolte in profondità, tocca
questioni basilari: filosofiche, scientifiche , esistenziali, religiose, sociali. Interroga.
Più volte sono tornate alla mente scene bacchiche e più volte sono state scacciate. Bacco, il lato
oscuro dai modi fanciulleschi, porta a trasgressioni efferate, alle possessioni, al fuori di senno. Tiziano
ne ha dato figurazioni mirabili come fosse un leggendario cronista di quei festini selvaggiamente
gioiosi. Cieli azzurri, paesaggi boschivi in vista di un mare lontano ma sempre presente
mentre in primo piano lo spazio è affollato di un tumulto di ninfe, satiri e dei. La ninfa dalla pelle
candida, scambia uno sguardo di intesa con un irsuto fauno dalle carni color della ruggine… a tra
poco… ora balliamo e suoniamo cembali e flauti. Bacco distrugge. Bacco premia. Sposa Arianna
lasciata sull'isola di Nasso da Teseo, la sua vela è già lontana, tutti festeggiano.
Gli eroi, umani, sono spergiuri e pusillanimi. Dopo aver raggiunto lo scopo dell’impresa- uccidere
il Minotauro annidato del labirinto - fuggono verso nuove mete. Gli dei crudeli e capricciosi, in
questo più umani degli umani ma più aristocratici di loro, concedono all’amato/a in un’altra forma
di vita, la metamorfosi poetica in una costellazione, in un albero, una roccia, un fiore, una
voce…
Laura Vecere - Marzo 2018