Come lavoro, ammesso che sia un lavoro
Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti.
Eccomi in studio. Comincio un quadro. Traccio delle linee. Subito dopo ne cancello alcune. Piazzo delle macchie, qua e là, solo per saggiare una tonalità. Si profila una forma: è vero che significa
quello che volevo, ma è il
come che non mi convince… Cosa ci vorrebbe? Mentre ripenso all’idea iniziale, vedo che una pennellata troppo liquida sta colando giù. Un istante prima di cancellare con lo straccio la lunga riga della goccia mi fermo: si è formata una sovrapposizione interessante. Mi pare addirittura una sottile metafora che arricchisce il soggetto, proprio negandone superficialmente l’apparenza. Dopo un po’ mi viene in mente la frase di un filosofo, anzi di uno scrittore, anzi di un poeta. E se cambiassi completamente impostazione al quadro? No, meglio iniziarne un altro. Ne porterò avanti due simili contemporaneamente, in modo da sperimentare più liberamente senza la paura di rovinare tutto. Ma rovinare cosa? E poi chi se ne accorgerebbe? E la qualità, la qualità sta in quella forma piena, delicata e tridimensionale, una specie di squarcio alla Chardin dopo aver fatto la dieta di Sol Lewitt. O forse la qualità starebbe nel prendere in giro questi riferimenti esagerandoli. Chi lo sa? Intanto il colore nell’angolo in basso a destra si è seccato troppo per poter ottenere l’effetto cui pensavo. Nel complesso sta succedendo qualcosa. Mi interessa che il quadro sia una presenza. Anche visto di scorcio, il bordo della tela ripiegata sul telaio, anche quella roba lì, quella sensazione di peso, di oggetto, di piano che sostiene, è importante. Oppure non me ne frega niente. Dipende dai giorni.
Luca Bertolo, Testimone #13, 2018 olio su tela cm 50 x 40 Courtesy SpazioA, Pistoia Photo: Camilla Maria Santini
Intanto la luce naturale che entra dalle finestre è diminuita al punto che non ci vedo quasi più. Accendo il faretto alogeno. Cristosanto, i rosa sono diventati arancioni… Non è mai morto nessuno per un arancione, è vero. Ma è anche una nostra responsabilità – di noi pittori – quella di proporre un rosa invece che un arancione a ragion veduta, come scelta poetica. I rosa di Bertolo, ah quelli sì, mica dei rosa qualunque… Mi siedo e mi accendo una sigaretta. Più che un’immagine, là sulla tela ci vedo l’immagine di un’immagine. Ma forse sto sovrainterpretando. Ragiona meno con la testa e più con il cuore! Comunque ci vedo un equilibrio. O sarebbe meglio dire: un disequilibrio in un magico momento di equilibrio. Come la mia vita… Forse per oggi basta così. Comincio a pulire i pennelli. Qualcuno aveva detto una cosa giustissima, ma non ricordo chi. Comunque domani riparto da lì. E dal senso di sconforto che ho provato leggendo la notizia del massacro africano, la settimana scorsa. Come si fa a tenere insieme tutti i pezzi? Comunque ora mi
cambio ed esco. Solo ancora un’ultima occhiata al quadro, di sbieco, senza farmi notare. Se ne sta lì, appeso al muro, buono buono. Non chiede niente, vuole solo asciugare un po’ in pace. Spengo la luce ed esco.
Contributo alla tavola rotonda con Alis/Filliol e Ludovica Carbotta dal titolo
Senza linea – come lavoro (ammesso che sia un lavoro), Festival dell’Arte Contemporanea di Faenza, 2010.
Luca Bertolo, Untitled 16#05 2016-17 oil on canvas 40 x 50 cm
I baffi del bambino
[righe cancellate] In altre parole, perché una spalla ben inclinata
è funzionale (e quindi bella) mentre un torace striminzito
è poco funzionale (e quindi brutto)? Chi ce lo dice? Ce lo
dicono l’Anatomia, la Meccanica e le leggi della Fisica. [righe
cancellate]
Esattamente vent’anni fa s’inaugurava
Risultati buoni, (1) una mostra
di opere realizzate a quattro mani da me e dal mio amico Luca
Giorcelli. Tutto era partito da alcuni opuscoli di medicina e veterinaria
che avevamo trovato nei locali abbandonati dell’ex Istituto
Sieroterapico di Milano. Avevamo fotografato alcune delle immagini
dei libri (tra cui cani, cavalli, utensili), stampandone poi degli
ingrandimenti su tele preparate da noi con dell’emulsione fotosensibile.
Avevamo giocato anche coi testi, cancellandoli parzialmente.
Il pezzo forte, che dava il nome alla mostra, era costituito da una
sequenza di donne seminude (pazienti fotografate dopo un’operazione
all’anca) che sembrano esercitarsi in assurdi passi di danza.
Un audio diffuso completava la mostra: brevi canti d’uccello commentati
in russo da una voce virile. A parte il giorno dell’inaugurazione,
in cui vennero le nostre fidanzate e un paio di amici, quella
mostra – la mia prima – non ebbe visitatori.
La contemplazione non è che che un occasionale tratto difettivo
di quella condizione generale e onnicomprensiva che è
l’aver sempre da fare questo o quello, questo e quello.(2)
Nel 1993 acquistai la mia prima opera d’arte. Si trattava di un quadro.
Lo acquistai direttamente dall’autore, (3) un amico più grande di
me, spendendo due terzi di quello che avevo in banca (un milione di
lire, come il Signor Bonaventura). Su quella piccola tela si riconosce,
pur molto semplificato, un signore seduto. È verdino, su uno sfondo
verdino. Cosa sta facendo quel signore un po’ goffo? Semplicemente
sta. Si è scelto una posizione comoda da cui contemplare il mondo.
Ora, come è noto, la contemplazione è un’attività del tutto particolare,
dal momento che si occupa non tanto delle cose quanto del loro
senso. Tra l’altro, come spiega Byung-Chul Han, (4) la contemplazione
non è per nulla passiva: al contrario è una forma di attività di livello
superiore, oltre che un necessario correttivo per quell’attivismo
un po’ isterico (performatività) che caratterizza il nostro momento
storico. Ma sono tempi duri per la contemplazione, anche in ambito
artistico, dove la sola parola mette a disagio un mucchio di gente.
A voler essere onesti, siamo tutti piuttosto goffi. Questa tara,
allo stesso tempo detestabile e commovente, ben rappresenta la nostra
condizione umana: creature in bilico tra animalità e cultura,
tra principio di realtà e principio di piacere, tra corpo e spirito, tra
approssimazione e delirio di perfezione. È un bilico faticoso.
Luca Bertolo, Sign 17#09, 2017 olio e acrilico su tela, legno cm 199 x 38 x 4 Courtesy SpazioA, Pistoia Photo: Camilla Maria Santini
Di un’opera d’arte trovo particolarmente stimolante, quando c’è, la
tensione tra eleganza e impaccio. È una cosa che mi mette allegria.
Inoltre, come è noto, certi gesti risultano espressivi proprio perché
impacciati. In ogni caso, da che mondo è mondo artisti scrittori
scienziati e musicisti si affannano attorno alla forma, cercano l’eleganza,
provano a portare un po’ d’ordine nel caos. S’impuntano
operosamente. È una cosa del tutto comprensibile. Ma tutto questo
mettere in ordine, tutto questo mettere in forma ha un limite: quando
la forma si fa troppo stretta la vita tende a soffocarci dentro.
Lo ripeto: è l’impossibilità di eliminare completamente l’arbitrarietà,
a meno che si opti per i monocromi – e forse neanche
così –, che sta alla base dell’attuale lutto per il modernismo.(5)
Un po’ alla larga, ma credo che questa mostra abbia anche a che fare
(ancora? beh, sì) con la cosiddetta morte delle utopie. Organizzare
una società perfetta, costruire l’uomo nuovo – stiamo parlando di
simili stupende aberrazioni. A quanto pare l’umanità non se l’è mai
cavata granché bene con la pianificazione socio-politica. Prima o
poi salta sempre fuori qualche bug o effetto collaterale, tipo i gulag.
Anche il modernismo è stato una declinazione di quello stesso
idealismo esasperato, sebbene, vivaddio, con conseguenze meno
nefaste. Sia come sia, già da un po’ di tempo i diktat modernisti
sono stati riposti in soffitta. In effetti, perché mai un monocromo
dovrebbe essere più puro di un viandante che contempla un mare
di nebbia?
Ed eccoci in dirittura finale. Quello che sto per dire potrà sembrare
fuori tema, o quanto meno eterogeneo rispetto a quanto detto
fin qui. Pazienza. Ascoltate: pur essendo fragilissimo, il bambino
comanda. Spietato con le lucertole, candido nell’autoaccusa, potente
all’improvvisazione – il bambino. Per l’adulto, il bambino è una
controfigura. Se è per quello, può anche avere i baffi6. Il bambino è
un lago cui l’adulto attinge ogni volta che si sente inaridire. Il bambino
inciampa continuamente, ma ci strappa un sorriso benevolo:
domani sarà lui a occuparsi dei padri.
Luca Bertolo, Terzo Paesaggio #8, 2018 olio su olio su tela cm 70 x 80 Courtesy SpazioA, Pistoia Photo: Camilla Maria Santini
Testo diffuso come foglio di sala e come comunicato stampa per la mostra collettiva
I Baffi del Bambino, a cura di Luca Bertolo, galleria Lucie Fontaine, Milano, settembre
- dicembre 2014. Hanno partecipato alla mostra: Alis/Filiol, Riccardo Baruzzi, Luca
Bertolo, Sergio Breviario, Chiara Camoni, canecapovolto, Bettina Carl, Radu Comşa,
Flavio Favelli, Lucie Fontaine, Linda Fregni Nagler, Antonio Grulli, Esther Kläs, Giancarlo
Norese/Cesare Pietroiusti, Katrin Plavčak, Paul Housley, Adriano Nasuti Wood,
Alessandro Pessoli, Luigi Presicce, Fabrizio Prevedello, Autumn Ramsey, Antonio Rovaldi,
Alessandra Spranzi, Italo Zuffi.
1 -La mostra ebbe luogo al Circolo Culturale Index di Milano, chiuso ormai da molti
anni.
2 -Carlo Sini,
Alle radici ancestrali del disegno, in
Il disegno dopo il disegno, Pisa
University Press, Pisa 2013.
3 -Il pittore inglese Paul Goodwin.
4 -Byung-Chul Han,
La società della stanchezza, nottetempo, Roma 2012.
5 -Yve-Alain Bois,
Painting as Model, MIT Press, Cambridge (Massachusetts) 1990
(trad. dell'autore)
6 -Cfr.
Il bambino con i baffi, «film acustico» di canecapovolto, opera presente in
mostra.