Carlo Zanni, The Possible Ties Between Illness and Success, 2006-2007
Artext - Da differenti approcci della contemporaneità nel tuo lavoro riesci a coniugare le ragioni del critico con le strategie del curatore - come funziona questo flusso di scambi, di trasferimenti e ricombinazioni. Mi racconti il tuo modo di procedere nello sviluppo di un determinato filone di ricerca?
Luca Panaro - Nel mio lavoro solitamente prevalgono le ragioni del critico. Nello scegliere gli artisti per una mostra, infatti, mi accorgo di assecondare il desiderio di riflessione su alcuni filoni di ricerca che trovo particolarmente attuali, specie quelli centrali nella mia pratica di scrittura. Faccio fatica comunque a scindere le due attività, alle quali si aggiunge quella di docente. Una è strettamente collegata all’altra, mi riuscirebbe difficile pensare l’insegnamento senza la conoscenza personale degli artisti, così come la curatela di mostre senza la riflessione critica. Per questo motivo, da qualche anno, parallelamente all’insegnamento in Accademia e all’Università, porto avanti a Milano il progetto didattico Chippendale Studio (
www.chippendalestudio.art ), dove ogni domanda degli studenti trova una risposta diretta nell’esperienza sul campo di artisti, curatori e galleristi.
A - Il referente primario della fotografia che tu prendi in esame rimane l'arte, non senza valutare gli inevitabili attraversamenti di ambiti, eppure la questione che si pone nel confronto, quello di valutare lo spazio ed il suo enigma sembra spesso rimanere a distanza, questo accade forse perché della fotografia non si perda la sua funzione specifica, di continua verifica della condizione umana...
LC - La fotografia è un linguaggio aperto a differenti letture, volendo svolgere un buon servizio alla disciplina è quindi necessario scegliere da quale parte schierarsi per meglio osservarne gli sviluppi. Io ho deciso (forse per formazione, forse per predisposizione) di guardare la fotografia dal mondo dell’arte, un osservatorio privilegiato ma anche condizionato da una logica ben precisa. L’opera d’arte fotografica si presta particolarmente a una lettura antropologica degli aspetti trattati, ma non solo quando l’immagine ritrae l’uomo, spesso sono i luoghi a raccontare il nostro agire.
Davide Tranchina, Paesaggio #1, 2011
A - La materia stessa delle immagini riflette "lo spazio della realtà dove la luce precipita e parla delle energie trattenute nelle cose". In un capitolo di un tuo saggio, Un'arte che si genera - (Casualità e controllo, 2014) parli di un processo aperto, dagli esiti inaspettati, quello della produzione di un'opera mediante un software - quali gli esiti di questo metodo che prova nell'ideazione del possibile un grado della cognizione in quanto tale, da renderla misurabile e computabile...
LC - L’interesse per la fotografia mi ha portato a prendere in considerazione altre forme d’immagini, non solo quelle ottiche prodotte da un dispositivo. I cosiddetti new media sono un campo di ricerca molto stimolante, come la frequentazione degli artisti che si esprimono con i linguaggi messi a disposizione dai processi informatici. Nel libro Casualità e controllo mi sono divertito a confrontare alcune opere sperimentali degli anni Settanta con quelle di artisti mediali dei primi anni Duemila. L’apertura al caso a cui si espongono certi artisti, complice l’utilizzo di fotografia, video e web, riporta al centro la riflessione sul ruolo dell’artista, il suo essere parte di un processo anche se in modo marginale. Le immagini prodotte da un software, per esempio, possono prevedere l’intervento dell’autore in percentuali differenti, si può passare dal controllo totale al più completo abbandono alle logiche della macchina. Tra queste due posizioni estreme c’è un ampio ventaglio di possibilità che l’artista e il suo dispositivo possono indagare.
Paolo Ventura, Winter Stories, 2007
A - "La possibilità di vedere la fotografia non come punto di arrivo nella visione del mondo, ma bensì come il punto di partenza per una serie di relazioni che oltrepassano il visibile per giungere alla logica" trova nell'occultamento dell'autore una strategia fondante, e dunque se l’opera e l’osservatore insieme, la cosa osservata e chi guarda coesistono...
LC - L’arte contemporanea ci ha insegnato ad apprezzare percorsi esperienziali oltre che oggettuali. L’artista spesso chiede allo spettatore di collaborare alla creazione dell’opera, altre volte considera l’atto della fruizione come parte fondamentale del processo generativo dell’immagine. Per ottenere questo risultato l’autore si occulta, completamente, oppure in modo parziale, così da indicare a chi guarda la possibilità di riempire i vuoti lasciati, divenendo protagonista di un processo condiviso. L’opera come esperienza è l’ambizione di ogni artista che utilizza le tecnologie, anche quando quest’ultime producono un oggetto estetizzante.
A - Il mezzo fotografico anche nei suoi recenti applicativi è considerato lo strumento ideale per vedere la realtà - e se tale può mostrare la realtà come ci appare, come un'estasi provocata dalla struttura della nostra coscienza. A innescare questo cortocircuito che si viene a creare fra realtà e finzione è dato dal pensarsi da una sorta di spettacolo del quotidiano, dove si è spettatore di se stesso mentre si agisce nel mondo le molteplici identità del reale - è questo il modello creativo che sta alla base nel tuo scritto, - La realtà come spettacolo quotidiano - come risolvere questa coincidenza che produce infinità?
LC - Un artista differisce da un altro per il grado di controllo che intende esercitare sulla macchina con la quale produce l’opera, ma anche sul livello di realtà che vuole registrare attraverso il proprio dispositivo. Se diminuiamo il controllo, volendo essere fedeli per quanto possibile al reale, si originano immagini che possiamo considerare “vere”, dove la realtà ne esce però spettacolarizzata. Non “finta”, semplicemente esposta al pubblico giudizio. È un processo inevitabile. Esplorando questa modalità operativa, nel libro Tre strade per la fotografia (2011), a cui ti stai riferendo, faccio una serie di esempi di autori che hanno documentato le azioni quotidiane del loro piccolo gruppo di amici, rendendo pubblico il privato. La particolarità di questa pratica consiste nella complicità preesistente tra il fotografo e i soggetti ritratti.
Marco Scozzaro, Sviaggioni, 2015
A - Quello che accade nella finzione, la ricostruzione mediante un set fotografico, del sensibile della visione, trova spazio di narrazione in uno dei capitoli del tuo testo, La finzione come futura verità - puoi raccontare da cosa prende origine questa necessità di ricostruire la realtà prima di fotografarla?
LC - In questo caso l’artista aumenta il controllo sulla propria opera, si mette nella condizione di governare direttamente l’intero processo produttivo. In un primo momento costruisce sul tavolo del proprio studio un modello, con relativa ambientazione spaziale, poi lo fotografa facendolo vivere nella dimensione dell’immagine. Il concetto di realtà è comunque presente anche in questa pratica, soltanto si aggiunge la componente illusoria. Per questo ho parlato di “finzione come futura realtà”, come se non ci fosse ragione per dubitare della sincerità dell’immagine, anche quando al suo interno si scorgono particolari che ne relativizzano la pertinenza.
A - Nel tuo recente saggio, Un'apparizione di superfici, 2017 - metti in continua discussione le certezze che crediamo di avere sulla fotografia - in che modo sta cambiata la percezione delle immagini fotografiche dopo l’introduzione delle tecnologie digitali? Puoi raccontare degli sviluppi che prendi in esame tali che si possa individuare un’iconografia del presente.
LC - Dici bene, i miei libri sono il tentativo di mettere in discussione le certezze che la fotografia ha acquisito nel corso del tempo. Nell’ultima pubblicazione ho insistito particolarmente su questo aspetto, sentendo la necessità di individuare una nuova estetica nata dall’utilizzo dei social media. Osservando opere fotografiche su Instagram, Tumblr, ma anche sulle riviste cartacee, nelle gallerie d’arte e nei musei, si riscontra come le immagini di oggi abbiano caratteristiche comuni. Per esempio l’assenza di prospettiva: sono immagini piatte! La mancanza di una struttura narrativa: sono fotografie singole, non per forza raggruppabili all’interno di un progetto. Hanno cromie particolarmente accese. Spesso sono verticali… queste e altre caratteristiche di cui parlo nel libro, fanno pensare a un cambiamento in corso, oppure forse è già avvenuto senza che ce ne accorgessimo.
Matteo Cremonesi, Sculpture/Washer, 2013-2014
Luca Panaro (Firenze 1975) è critico d'arte, curatore, insegna all'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Tra i suoi libri: L'occultamento dell'autore. La ricerca artistica di Franco Vaccari (Apm 2007), Tre strade per la fotografia (Apm 2011), Conversazioni sull'immagine (Danilo Montanari 2013), Casualità e controllo. Fotografia, video e web (Postmedia Books 2014, ed. inglese Droste Effect 2016), Visite brevi (Quinlan 2015), Photo Ad Hoc (Apm 2016), Un'apparizione di superfici (Apm 2017), Dialoghi brevi (Quinlan 2018). Ha pubblicato su Enciclopedia Treccani XXI Secolo il saggio Realtà e finzione nell'arte contemporanea (2010), co-curato l'opera in più volumi Generazione critica (Danilo Montanari 2014-2017) e Effimera (Apm 2016-2017), oltre a una serie di cataloghi e monografie su artisti contemporanei. Fondatore e direttore di Chippendale Studio.
Le immagini degli autori sono tratte rispettivamente dai saggi di Luca Panaro
Casualità e controllo, Postmedia books 2014
Tre strade per la fotografia, Apm 2011
Un’apparizione di superfici, Apm 2017