LA FEDELTÀ ALL’IMMATERIALE
Approfittando dell’ultima personale visitata di Emanuele Becheri, presso il Museo Novecento di Firenze (1), si colgono conferme e variazioni di un percorso pieno di “spettri”, inteso sia come estensioni semantiche che immagini evocative.
Negli ultimi anni, l’artista pratese ha convogliato la sua indagine preminente all’uso del disegno come soggetto
postmediale in una vera e propria immersione manuale, scaturita in proposte scultoree caratteristiche seppure, per paradosso, sempre estranee ad intenti autoriali. Gli antipodi strutturali della mostra, il disegno e la scultura, passano, invero, attraverso una vasta gamma di media, dalla fotografia alla performance sonora, affrontati dall’artista in vent’anni d’esperienza, tutte opere connotate da una forte componente di casualità, “innescate” dal Becheri e lasciate al loro peculiare sviluppo: dalla traccia organica di
Shining (2008) alla “cattura” su carta adesiva di
Impressioni (2010), l’imprevedibilità del regno animale ha mosso una riflessione ontologica scaturente una sempre più incisiva dispersione autoriale, mediata da una maturazione coercitiva sulla dimensione temporale.
L’attenzione plastica, invero già insita in lavori come
Rilasci (2006), carte accartocciate in balia della forza di gravità, è dunque risultante nel processo creativo da questa differenza ontologica e la temporalità, cui resta la reale alterità, la
crudité (2). La scultura del Becheri possiede una durata, acquista significanza nella sua relazionalità con l’osservatore, soprattutto nell’intervallo percezione-memoria, fattore, quest’ultimo, determinante perché supera il contatto diretto e permane a distanza nella cognizione, rendendo protagonista né l’autore né l’opera fisica, ma la sua
traccia.
Emanuele Becheri, Testa, 2019, terracotta.
LE CARTE-LITOGRAFICHE
(ATTO PRIMO : L’EVOCAZIONE)
Sull’impronta, un discorso più compiuto meritano le opere su carta,
Stati d’animo (2016-2017). Strisciando e spalmando tocchetti di pongo sui supporti piani, si ottengono, attraverso una gestualità del tutto simile all’approccio con la materia terrigna, dei grafismi oleosi orientati sulla medesima suggestione mnemonica delle opere tridimensionali. Il punto di vista unico, contrariamente alla pluralità della scultura, presta, tuttavia, un vantaggio alla considerazione dell’opera come segno metafisico, perché evidenzia formalmente il passaggio esecutivo, sottolinea quello che
è stato.
Mettendo in relazione i recenti disegni con il progetto
Impressions (2015), dove l’artista, totalmente impreparato, eseguiva improvvisate colonne sonore per proiezioni di genere variabile, si coglie meglio quanto la traccia sia immanente, acronica, persino quando è posta davanti agli occhi. Questa temporalità tornita delle grafiche è l’innesco, come suddetto, di una volontà plastica ottenuta elevando a potenza quel “levare”
michelangiolino, quel “secare” che diventa
differenza e ripetizione (3), ponendo l’accento sulla rappresentazione precipitata (signa deserere), paesaggi spannati, istigata dall’esacerbazione del gesto scultoreo. Il gioco linguistico, costante nella varietà delle opere, segno-simbolo e immagine-rappresentazione si quantifica nelle carte appese a parete anche in un richiamo materico opportuno, benché certamente fortuito, con la pietra litografica, data la bordatura, indice di un processo a contatto. Terra chiama pietra e viceversa, in un rapporto oscillante e dialettico, proprio della scultura del Becheri, cui si avvale, in tal modo, anche di quel dinamismo epistemologico, considerando i processi cognitivi e l’attività senso-motoria.
Emanuele Becheri, Stati d'animo, 2017, pongo su carta.
LA FORMELLA
(ATTO SECONDO: LA NASCITA)
Tornando sulle opere scolpite, analizzando la relazione con il fruitore, si evince, con la giusta distesa partecipazione, una progressiva nota
romance, indotta, indiscutibilmente, dal fittissimo intreccio di segni provocati dall’autore, ma senza escludere la sovrapposizione soggettiva di altre trame semantiche esterne. Una progressione, quindi, costantemente indeterminata e a tratti emotiva, persino carnale, dall’inevitabile traguardo di
eguagliar sé stessa, invocando Nietzsche non in nome di chissà quale velleità, ma per similitudini concettuali nell’interpretare l’atto creativo come
sovrastorico e persino etico, punto su cui si ritornerà in seguito.
Sulla matrice storica, invece, spicca subito il paragone tra il Becheri e altri autori del passato (motivo formale opportunamente rimarcato nel percorso museale, mirando gli esempi di un Medardo Rosso, un Arturo Martini o di un Lucio Fontana, confronto tutt’altro che nostalgico, come l’apparenza estetica suggerirebbe, invero si tratta di una
sovrapposizione critica, una sorta di “diluizione” entropica, sempre ottenuta
riducendo l’immagine in un susseguirsi temporale, come un’inquadratura ideale (4), processo che finisce con l’assorbire il precedente storico e sincronizzarlo nella sua possanza. Per chiarire questo aspetto del percorso, il cui fine, ribadendo, è comunque quel termine romantico, efficace è il raffronto tra un lavoro peculiare dell’artista pratese,
Formella (2019), e uno dei pannelli che compongono la
Porta del Paradiso del Battistero fiorentino, capolavoro riconosciuto a Lorenzo Ghiberti, quello della
Creazione di Adamo e Eva. Anzitutto è chiaro che la suggestione fisiognomica è determinata dall’osservatore, tuttavia la lecita pertinenza rendono la comparazione reale, oltretutto coincidendo, sia nel manufatto dorato che nella terracotta, un’insistente eloquenza temporale, a livello narrativo ed esistenziale (5).
L’epifania percettiva è caratteristica saliente della scultura del Becheri, manifestazione che aumenta sublime e permane nella reminiscenza.
Emanuele Becheri, Formella, 2019, terracotta.
L’OMBRA
(ATTO TERZO: LA DONNA)
Un altro aspetto rilevante sul piano filosofico e oggettuale è il calcolato intervento dell’ombra come strumento linguistico e morfologico. Pur dimensionando il suo ruolo, spesso “rubato” al teatro, nella compagine dell’opera d’arte, l’ombra veste perfettamente il
trait d’union tra il disegno e la scultura, non foss’altro per la leggenda del vasaio Butade, e nel caso dei lavori in questione calza pertinente in virtù di un elemento sintetico tra fisicità e concetto: la sensualità.
La suadenza dell’ombra nella statuaria moderna è legata alla conquista della
mìmesis carnale, sempre più “viva” e dinamica, senza separarsi da questioni iconografiche e metaforiche: dall’interessante lettura biblica nell’episodio dell’Annunciazione, alla sua demonizzazione associata alla lussuria, fino alla consacrazione cinematografica, l’attribuzione femminile nei riguardi dell’ombra è argomento conclamato, specie nell’identificazione con il corpo e la sensorialità (6).
Considerando il pezzo più iconico dell’esposizione fiorentina,
Figura (2019), in aperto dialogo con gli affreschi di Ludovico Buti, la proiezione del corpo coroplastico aumenta iperbolicamente i valori concettuali suddetti all’arte del Becheri, comprese l’apostrofe romantica che qui culmina nella sua ambiguità cronologica e funzionale (annotando, tra l’altro, che il Buti era incline alla pittura riformata fiorentina) e persino
pseudo copulare (la forma fallica della scultura). Questa aspirazione ascendente, ricordando in formula nietzschiana quanto sia eguale a sé stessa, potenziata dalla componente ombratile, evoca l’Eterno Femminino del
Faust di Goehte, il divenire della conoscenza librato nella versatilità dell’immaginazione.
Emanuele Becheri, Figura, 2019, terracotta.
IL DIAVOLO
(ATTO QUARTO: L’ANIMA)
In conclusione, resta il riferimento etico di queste proposte artistiche, attinenza intesa non nel suo significato compiuto, ma come parte integrante della complessità ontologica di questi soggetti esposti: in sostanza, l’etica non è lo scopo e tantomeno il principio della creazione artistica del Becheri, però risulta presente
formalmente, modulata come un
medium, “innescata” ripetutamente.
Più che un
superamentodell’etica, parafrasando il già citato Nietzsche, si avvalla un equilibrio tra pratica e pensiero, tra «dover essere e poter essere», vicino alla posizione heideggeriana, benché la similitudine migliore viene dal Leopardi, con la “morte” della morale e il suo fondamento non su questioni razionali ma immaginifiche e passionali.
Il lavoro del Becheri è greve e impregnato di fatica, eppure lucido e sorretto dalle proprie contraddizioni. Se è vero che l’artista assume le sembianze di un Cristo corrotto, sconvolto dalla
Pietas Carnis, sulla logica che Tutto si regge sull'opposizione dei contrari (
Polemos) è anche vero che l’artista incarna la propria nemesi, il Satana decaduto. Per dar corpo a questi ragionamenti, si veda in esposizione la
Testa(2018) appesa a parete: oltre la suggestione formale dalle fattezze caprine, la manualità insistita e sprezzante e la posizione trionfale, quasi come un
memento mori, descrivono uno stato conflittuale eppure consapevole, bilanciato.
Concedendo un’appendice, si riporta la trascrizione di uno scambio di opinioni con una voce critica che preferisce restare anonima: «Rispetto al passato, tuttavia, Becheri torna mastro e maestro, impartisce una lezione alla materia quasi volesse rimproverargli d'essere uscita dalle sue dita prima che egli stesso l'abbia pensata. C'è sicuramente una violenza, simile a certi autori medievali (Giovanni Pisano, soprattutto) ma non per descrivere il Male generalizzato, ma il proprio male individuale, che diventa fisico per catarsi, sudore e fatica, magari con qualche taglio o bruciatura, mentre la Vita brulicante tenta di emergere e forse prendere il sopravvento. Quanto ci vorrà all'artista per uccidere la sua personale Moby Dick o venirne ucciso?».
Luca Sposato
Emanuele Becheri, Stati d'animo, 2017, pongo su carta. Campo Aperto – Emanuele Becheri. Sculture e disegni, dal 21 gennaio al 30 aprile 2020, a cura di Saretto Cincinelli e Sergio Risaliti, presso il Museo Novecento di Firenze.
[2] Il riferimento è chiaramente al
Théâtre de la cruautédi Antonin Artaud, in particolare al suo apologo “materiale” di un’estetica oscena e irrappresentabile. Sull’argomento, impeccabile, cfr. J. PEKER, «Crudité et cruauté»,
Nouvelle revue d’esthétique, vol. n °8, no. 2, 2011, pp. 69-77.
[3] Vedi G. DELEUZE,
Differenza e ripetizione, trad. di Giuseppe Guglielmi, Raffaello Cortina editore, Milano, 1997. Sul rapporto tra Deleuze e Artaud esiste una ricchissima bibliografia, cui buon riepilogo si trova in V. VERDESCA, «Deleuze e Artaud. Filosofia e teatro per la vita», in
Iride – Filosofia e discussione pubblica, no. 3, 2010, pp. 657-670.
[4] A tal proposito, essenziale è il saggio del 1946, scritto dal cineasta Sergej M. Ėjzenštejn, Piranesi o la fluidità delle forme, ottima sintesi di segno (inciso), architettura e cinema. Cfr. M. TAFURI, «Storicità dell’avanguardia: Piranesi e Ejzenstejn», in
La sfera e il labirinto, Einaudi Editore, Torino 1980, pp. 77-110.
[5] Sul pannello quattrocentesco, è da notare il rapporto tra l’aggetto plastico e la cronologia delle scene riunite nella medesimo contesto, creando un continuo percettivo esterno-interno non molto dissimile dal campo-controcampo cinematografico; la rivoluzione rinascimentale della prospettiva è certamente frutto di un dialogo costante tra i padri putativi (Masaccio, Brunelleschi e Ghiberti), confermato dall’ultima sequenza del suddetto pannello, la Cacciata di Adamo e Eva, la cui rilegatura confinata al margine del supporto è soluzione di equilibrio formale e simbolico (peccando, non c’è più posto nell’Eden), proprio come nella più nota proposta pittorica masaccesca alla Cappella Brancacci, dove il portale del Battistero fornisce un preciso dato
post-quem al 1425.
[6] Sull’argomento, esaustiva la pubblicazione di Victor I. Stoichita, in particolare un puntuale riferimento al Cennini: «È interessante notare che per Cennini l’esecuzione dell’ombra incorporata pertiene ai primi rudimenti dell’arte. È un fatto di “disegno” (quindi della prima fase dell’esecuzione della forma) prima ancora di diventare un fatto di colore.» cfr. V. I. STOICHITA, «L’ombra della carne», in
Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, Il Saggiatore, Milano, 2015, pp. 47. Con maggior riferimento alla scena poetica, cfr. R. DIODATO, «Metafore dell’ombra», in
La persona e i nomi dell’essere. Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre ,a cura di Francesco Botturi, Francesco Totaro, Carmelo Vigna, vol. 1, Milano, 2002, pp.349-372.
Emanuele Becheri. La fedeltà all'immateriale