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Luigi Presicce
Diario di una residenza
Lacasapark NY

 
Luigi Presicce



511 S. Mountain RD, Gardiner, NY

8 novembre 2019

Siamo partiti due giorni fa da Firenze, parlo al plurale sia per nobiltà d'animo sia perché con me è partita anche Anna Capolupo alla volta della Grande Mela. Inizio però a parlare in singola persona, visto che questo è il mio diario, la mia corrispondenza. Nei giorni precedenti alla partenza tutti parlavano solo di "sei andato a Torino?", "hai visto Artissima?". Bé devo dire che tutte queste domande mi hanno messo un irrefrenabile desiderio di ricordare quando è stata l'ultima volta che sono stato a Torino per Artissima... Non ne ho memoria sinceramente, mi ricordo solo di esserci andato qualche volta (ho anche fatto una personale in fiera), mi ricordo chiaramente che avevo un giubbotto di pelle da motociclista, nero con spalline bianche. Non ricordo altro, ma sarà stato certamente una ventina di anni fa, dato che ho perso completamente di vista quel giubbotto. È bello riconoscere di non essere mai presente quando serve, di non fare mai presenzialismo. Uno pensa di avere a che fare con un performer, uno che è sempre al centro della scena, invece si trova di fronte me, che faccio performance per non parlare con la gente. Per non dovermi sorbire quelle domande che mi imbarazzano per quanto stupide e fuori luogo. Tornando alle fiere d'arte invece non ho alcun pregiudizio, quest'anno sono stato a Frieze NY, all'Armory Show, ad Art Basel e Liste. Il mio apporto alle fiere d'arte mi pare di averlo dato a sufficienza. Torniamo qui. Tanto è qui quello che ci interessa ora. Questa è la mia quinta volta negli Stati Uniti, la prima era nel maggio 2003, tutti erano depressi e al posto delle Twins Tower c'era un buco enorme, non già quella specie di centro commerciale alla memoria, le vasche e la sfilza di nomi incisi nel marmo. Poi è passato un po' di tempo prima che ci ritornassi, esattamente quindici anni. Il mio amico d'infanzia (di Porto Cesareo ovviamente) compiva quarant'anni e la sua ragazza gli ha regalato un viaggio a NY insieme al suo migliore amico, il sottoscritto. Niente male ricevere un regalo così di riflesso. In quelle due settimane di vacanza ho capito che Salvatore perderebbe i suoi piedi in una vasca da bagno, mentre io ho imparato a destreggiarmi nell'enormità della Grande Mela, scoprendo che in verità è molto più semplice muoversi qui che altrove. Le volte successive sono tornato per lavoro, ho vinto una residenza nel Lower East Side (Artists Alliance Inc) e ho trascorso diversi mesi avendo uno studio e la possibilità di girare senza le scadenze di chi viene qui in vacanza per poco. Avere uno studio a Manhattan vuol dire che davvero puoi stare fino a notte fonda a lavorare, bere e concentrarti, anche quando fuori succede di tutto. La facoltà della scelta di fare delle cose o non farle o addirittura perdersele, è una sensazione rara. Sapendo che hai dei mesi davanti a te e che questo ora è il posto dove devi vivere, ti porta a fregartene di tutto quello che faresti se fossi in vacanza, tipo guardare i musei, girare per gli opening, concerti o serate di vario tipo, tanto domani sarà esattamente uguale, e ancora il giorno dopo e quello successivo. Accade di tutto e tu sei lì in studio a dipingere. Poi a notte fonda torni a casa e pensi: ora anche Clemente ha smesso di lavorare e sta tornando a casa, forse invece Schnabel è sceso giù al bar dei surfisti per farsi un Margarita. E intanto pensi che è bellissimo essere parte di questo disegno.

Quinta volta, dicevamo.

In effetti, non ero partito con l'idea di fare una nuova residenza, stavo solo cercando casa, e mentre non riuscivo a trovarla perché quella dove vado di solito nell'Upper East Side era occupata, Davide Balliano mi ha messo in contatto con quelli che dirigono Lacasapark, dove sono ora. Emiliano Casarosa e Jaehee Park sono una coppia, lui italiano, di Livorno, lei coreana di Seoul. Hanno messo a punto una casa molto bella a due passi dalla loro casa di vacanza a due ore da Brooklyn dove vivono (con un figlio adolescente, Gael) da venticinque anni. Lacasapark non ha avuto molti ospiti ancora, noi attuali ospiti ci possiamo considerare tra i primi, oltre a me e Anna ci sono anche Savannah Knoop e Jemila MacEwan. Un po' in disparte (nella seconda casa affianco a quella della residenza) il giovane Filippo Zambelli invece sta costruendo un divano super complesso tutto fatto a mano. Prima ancora c'era stato 108 un artista italiano che ha lasciato vari segni in casa e fuori. A proposito di fuori, nel bosco che fa parte della proprietà ci sono interventi che hanno lasciato altri artisti di passaggio, probabilmente prima che nascesse la residenza vera e propria e tutto avveniva in forma amichevole. Dimenticavo, fuori oggi c'è il sole, c'era anche ieri, ma la temperatura è ferma a un solo grado, siamo nelle campagne a nord di New York e la differenza climatica si sente tutta. La casa è immersa in un bosco ai piedi di un monte, tutto fa parte di una riserva naturale. Prima pare ci fossero gli indiani. Ora ci sono i ricchi che vengono a svernare. Ieri passeggiando sulla South Mountain ho visto una Porsche tutta d'oro parcheggiata di fronte a una discreta casetta in legno. Ho visto anche un pianoforte a muro buttato sul ciglio della strada, zuppo d'acqua della pioggia del giorno prima, ma ancora con qualche tasto funzionante, poi uno scoiattolo investito che sembrava stesse solo dormendo... Ci sono molti animali qui nella zona, gli scoiattoli dominano, ma ci sono anche diversi daini, ieri mentre rientravo da New Paltz in macchina me ne sono passati davanti quattro e altri ancora ne avevo visti vicinissimi alla casa, si sentono le aquile, ho visto diversi tacchini selvatici, un orsetto lavatore e addirittura un lupo vicino al laghetto. Dicono inoltre ci siano anche tartarughe e addirittura orsi, ma spero di non fare questo tipo di incontri nelle mie passeggiate.

Luigi Presicce


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Luigi Presicce


511 S. Mountain RD, Gardiner, NY

11 novembre

I giorni passano, fa un freddo sempre più pungente, l'acqua si ghiaccia sulle strade e vengono le stalattiti dai tetti. Tutto sommato si sta proprio bene. In casa si muore di caldo, io ho iniziato a dipingere, mi sono fatto una mia postazione al piano di sotto e sono davvero contento. Qualcuno pensa che essere artista vuol dire soffrire e fare la fame. Si a volte accade, anche a me, ora però no. Un anno fa non avevo nemmeno i soldi per un caffè, mangiavo di rado e solo quando Matteo o Stefano venivano a offrirmi qualcosa da mangiare sapendo che ero in condizioni pessime. Poi ho venduto un quadro di grandi dimensioni (dipinto da più di una decina d'anni) e la situazione si è ribaltata, facendomi ritornare la persona viziata che sono. Ho avuto due grandi crisi economiche da quando ho memoria e sempre legate alla fine di un rapporto di lavoro con una galleria. Non è semplice neanche per uno come me molto conosciuto riuscire a tirare avanti senza una galleria che si occupa delle vendite. L'ultima galleria che ho avuto di Firenze non ha venduto mai nulla per quanto era occupata a vendere tutti gli altri artisti, quella prima di Milano un disastro totale, vendite su vendite e pagamenti mai visti... per mia fortuna non firmo mai ne le opere e ne le autentiche finché non ricevo i pagamenti, almeno su questo posso rivalermi in qualsiasi momento sulla loro paternità.
A proposito di paternità, mi manca molto Leone, mio figlio di quattro anni, vorrei fargli vedere i daini che vengono sotto le finestre, i tacchini selvatici enormi, le cascate, gli scoiattoli. Lui nonostante sia un bambino è già stato in tanti posti, anche a New York, Berlino, Bruxelles, Londra, e in diverse città italiane. Ha visto due Biennali di Venezia e tanti musei nelle città sopra citate. A New York siamo andati in barca a remi nel lago di Central Park, è stato divertente, mi faceva pensare a mio padre che era pescatore quando io ero piccolo (certo mio padre andava a pesca su una paranza... niente a che vedere). Porto sempre nei miei viaggi lontani da lui una barchetta di carta che mi ha fatto qualche tempo fa, la metto vicino al letto, su una fiancata c'è scritto LEONE.
Mancanze a parte, qui l'atmosfera è piacevole, sono arrivate altre persone in visita, siamo in tanti intorno al tavolo della casa di fianco alla residenza, abbiamo fatto un barbecue di pesce e uva (l'uva grigliata è sorprendente) e mangiato benissimo, Jaehee è molto brava a cucinare e Savannah con la sua ragazza hanno fatto una torta al cioccolato con le more i lamponi e la panna montata a mano. Non si sta male no. Forse si dovrebbe lavorare anche, ma alla fine ho già fatto un quadro, un ritratto a memoria di Emiliano con il suo cappello con le piume. Mi piace come è venuto e piace anche a lui. Il quadro è pieno di virgolette, come la pittura divisionista italiana o quella impressionista francese, i colori sono acidi, fluorescenti. Da quando mi sono impuntato a farmi piacere il giallo, sono diventato un amante del giallo fluo, non l'avrei mai pensato, ma è andata proprio in questo modo. Trovo che la tavolozza di un pittore determini parte della buona riuscita di un quadro e diventi col tempo un carattere distintivo dell'artista. Ho ridotto tantissimo i colori sulla mia tavolozza, e questa è una sfida davvero importante. Ogni cromia va cercata solo in quelle poche tonalità e nelle mescolanze tra loro. Non ho il nero. Ne faccio a meno volentieri. Una ventina di anni fa tutti i galleristi ti dicevano (con insistenza) di fare i quadri chiari, addirittura c'era la teoria di tenere le luci basse dello studio per farli più chiari. Poi è spuntato Victor Man, un pittore rumeno, e molti hanno cambiato idea.
Ieri è arrivato anche Gael, il figlio di Emiliano e Jaehee. Sono subito iniziate le partite di calcio nello spiazzo di fronte alla casa. È tifoso della Juventus. A me piace guardare le partite di calcio, ma non ho una squadra preferita, mi piace anche giocare a calcio, quando abitavo a Milano giocavo tutte le settimane con una squadra composta principalmente da dentisti. Ora gioco con Leone che ha un sinistro poderoso nonostante sia un bambino e ancora non lo prendono a giocare nelle scuole di calcio. Torniamo all'arte, è per questo che siamo qui. È difficile pensare il mio lavoro performativo senza i ragazzi che collaborano con me, senza Giovanni che mi realizza i costumi, senza i miei confort diciamo. Per fortuna Dario Lasagni, il mio fotografo "ufficiale" abita a New York, almeno su questo sono coperto. Nonostante ciò la testa mi sta facendo fumo, qualcosa bolle, ma non so cosa. Ho in mente un arlecchino, aspetto di sognarlo per capire cosa ci devo fare, va sempre in questo modo. Se non dovessi sognarlo amen, continuerò a disegnare.
Ieri la compagnia ha deciso di fare una gita al Minnewaska State Park, siamo partiti tutti dopo aver dato quattro calci al solito pallone. Sembra di essere proprio in vacanza; ti portano a vedere la cascata, il lago, fare la camminata nella natura... Poi tutti in paese a New Paltz per pranzo in un fioraio che fa anche dei panini buonissimi e successivamente visita a una distilleria locale per una degustazione di whiskey (che mi spegne definitivamente ogni voglia di lavorare). Nel frattempo ero entrato anche in un antiquario e ho comprato un giubbotto rosso di panno anni 50 e una piccola statuina di plastica di Gesù molto carina. Oggi si va a New York, domani facciamo la Scuola di Santa Rosa, ho già avvisato tutti!

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511 S. Mountain RD, Gardiner, NY

14 novembre 2019

Siamo partiti in macchina con Emiliano, Anna, Filippo e Gael alla volta di New York City. Per strada iniziamo a mettere canzoni dal telefono di Emiliano, parte una specie di DJ set a più mani che alla fine sfocia in una ricognizione di canzoni e canzonieri regionali... quando arriva il mio momento siamo alle porte di Manhattan e si vede già lo skyline. Parte "Lu carcere è galera" di Bruno Petrachi e tutto diventa surreale, mi sembra di stare nel salone da barba di mio nonno, un momento da tuffo al cuore.

È sera quando arriviamo, recuperiamo Jaehee da casa a Brooklyn e andiamo a cena in un cinese sofisticato con Andrea Galvani e Rebecca una curatrice di New York. Mangiamo e poi andiamo a fare una passeggiata lungo l'Hudson river. Di sera ha sempre un certo fascino guardare Manhattan da Williamsburg, mi ricorda le passeggiate di qualche tempo fa con Sara Enrico quando tornavamo a casa la sera, abitavamo nello stesso quartiere.

Finalmente è martedì, la Scuola di Santa Rosa si avvicina, ma intanto io e Anna ci svegliamo e decidiamo di intraprendere una camminata a piedi verso lo studio di Francesco Simeti, che pare vicino dalla pianta, ma che in realtà con qualche fiocco di neve che cade è più lontano che mai.

Arriviamo infreddoliti come due ghiaccioli al vento e Francesco è già ai fornelli che prepara. Ha comprato della salsiccia e dei funghi per fare una pasta, ma scopre che Anna è vegetariana e mentre versa la salsa di pomodoro nella pentola gli ricordo che sono allergico a quella cosa rossa. Scatta il piano B, pentole separate e preparazioni diverse per tutti e tre. In qualche modo mangiamo e parliamo del progetto che abbiamo di fare una mostra a quattro mani qui a NY, le idee ci sono, l'entusiasmo non manca, ma ci serve uno spazio...

Ci incamminiamo verso il Sel Rrose, un locale tra Lower East Side e China Town.

Da un paio di anni, in maniera saltuaria, tutte le volte che sono a New York organizzo la Scuola di Santa Rosa. La Scuola non è una vera e propria scuola, non si insegna nulla a nessuno, come a Firenze (dove io e Francesco Lauretta la facciamo tutti i martedì da due anni) è un momento dove si disegna, si chiacchera, si sta insieme. Per questo primo appuntamento della stagione ci sono quasi tutti i miei amici che vivono in città, è un momento aggregativo importante, sono emozionato e mi fa davvero piacere vedere Alessandro Facente, Andrea Mastrovito, Davide Balliano, Dario Lasagni, Monica Mazzone e Mattia Barbieri. Troviamo lì ad aspettarci anche delle ragazze che non conosciamo, Costanza Battaglini (che mi dice di essere stata alla Fondazione Lac o le Mon quest'estate) e Cetty Previtera una pittrice di Zafferana Etnea. Ci raggiunge anche Filippo, siamo in tanti, forse eravamo stati così in tanti sono un'altra volta. Il locale è pieno di avventori che si mischiano a noi che disegniamo e beviamo cocktail, Dario ordina una serie di Old Fashioned, io dopo una birra e qualche disegno passo al mio cocktail preferito del Sel Rrose, si chiama paradossalmente Santa Rosa (non è un caso ovviamente, tutto è già scritto da qualche parte), ha una parte di tequila importante e delle roselline che galleggiano dentro il bicchiere. L'atmosfera è divertente, piacevole, le luci soffuse, vediamo a malapena quello che disegnamo, ma siamo felici, questo si vede.

La Scuola di Santa Rosa non chiede mai il permesso al bar dove avviene, ma pare questa volta i gestori del locale siano particolarmente contenti. In altre occasioni li avevo visti che ci guardavano con sospetto... In fondo si dovranno pur abituare, in alcuni periodi siamo lì dei mesi interi ogni martedì!

La serata continua. Ci spostiamo dal Sel Rrose dove abbiamo lasciato un bel gruzzolo e ci rechiamo con Anna, Monica, Mattia e Filippo a vedere una inaugurazione all'altro lato della strada. C'è una personale di Daniel Richter, un pittore tedesco omonimo dell'attore che interpretava David in 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Daniel Richter è stato negli anni novanta un pittore straordinario, era partito con una pittura astratta che si è pian piano rivolta alla figurazione utilizzando lo stesso tipo di grammatica pittorica. Ha influenzato (come Peter Doig e Luc Tuymans) centinaia di giovani pittori in tutta Europa, Italia compresa. Questa mostra fa schifo invece. Ci sono esposte grandi tele verticali tutte della stessa misura, ma fanno davvero pena, non sono ne figurative ne astratte, le cromie sono accese e un contorno a pastello a olio delinea tutte le forme come nei migliori dipinti di fine liceo artistico. Non so che dire. Avevo già visto una sua mostra personale a Berlino circa due anni fa e aveva presentato dei poster fatti male, di quelle cose che fai quando vuoi fare delle cose nuove e non ci riesci; ma questa mostra è peggio. Ti abbiamo amato Daniel Richter, ma ora ciao...

Per fortuna andiamo a mangiare, ancora un cinese, ma molto buono, è evidente che gli occhi a mandorla hanno rilevato un diner anni cinquanta e lo hanno adattato alle loro esigenze senza stravolgerlo negli arredi.

È mercoledì e io e Anna decidiamo di andare a vedere qualcosa in città visto che siamo ancora lì. La scelta cade sul Whitney Museum dove ci dovrebbe essere ancora in programma la Biennale omonima.

Partiamo malissimo, è la prima volta che pago l'ingresso a un museo americano in vita mia (25 dollari), in passato ho sempre bleffato dicendo di essere un giornalista con tanto di tesserino e passaporto alla mano, ora questo tesserino l'ho restituito al legittimo proprietario, quindi mi tocca pagare (una volta con Matteo Coluccia siamo entrati al Guggenheim semplicemente presentando, con nonchalance, due biglietti presi da terra).

Andiamo avanti.

Saliamo e troviamo una mostra risicatissima di Roy Lichtenstein. Tempo di permanenza 14 secondi. Saliamo ancora.

Si apre agli occhi una vasta mostra di Rachel Harrison, una pioniera del Post internet. Per la maggiore ci sono opere che sembrano prese dallo studio di Franz West (finti massi policromi) e ritoccate con qualche altro oggetto di scarto o fotografia in cornice. Mi colpiscono alcuni disegni a matita colorata fatti abbinando ritratti di Emy Winehouse ad alcune opere di Picasso, Alice Nell o Martin Kippenberger. Per il resto rimango annoiato. Un piano con la Biennale è chiuso e ci rechiamo diretti al bar (ottavo piano). Beviamo un caffé e scopriamo che una singola mela costa due dollari (se fosse stato il prezzo di un chilo di mele già sarebbe sembrato caro). Saltiamo una mostra con pianoforti che suonano da soli e andiamo giù a visitare la collezione. Sempre molto affascinanti i quadri di Eduard Hopper, il mio preferito è con una donna in piedi completamente nuda che fuma in una stanza da letto. Poi il famoso quadro con il clown che fuma seduto al bar (di fronte al quale si crea un piccolo capannello di gente), e ancora l'autoritratto. Curioso il finto borsalino al bookshop riproponente il cappello di Hopper nel quadro a soli 345 dollari.

Nelle sale ancora qualche O'Keefe, un brutto ritratto di Alice Nell (che adoro come pittrice) e una marea di pittori naif che faccio fatica a guardare, tranne Paul Cadmus, George Tooker e George Ballows (bellissima la scena con marinai e donnine di quest'ultimo).

Chiude tutto troppo presto a NY e si corre verso la 22th per vedere Hauser & Wirth. Abbiamo poco tempo. Ci accoglie un trio di mostre che ha inaugurato il giorno prima. Al primo piano (piano terra per noi europei) una personale post mortem di Mike Kelley con opere a dir poco belle e sempre sorprendenti. Molti dipinti, tra cui uno con una specie di hippie-fauno che sodomizza un unicorno tutto bianco in una serata stellata.

La cosa che mi fa specie non è il soggetto di questo dipinto, che trovo splendido, ma la mia difficoltà a pensare mostre di gente morta e loro relativo allestimento. Il paragone potrebbe essere che se io morissi, mia sorella che non sa nulla di me, si mettesse a decidere del mio lavoro.

Saliamo di corsa al secondo piano, le "guardie del corpo" disseminate in tutta la galleria ci assediano. E la volta di Rashid Johnson un artista di colore della mia età che ha iniziato a lavorare più o meno nello mio stesso periodo. Molti anni fa lavoravamo per una galleria di Chicago, Moniche Meloche, poi lui è diventato una star, in Italia lavora con Massimo De Carlo, io non ce l'ho neanche una galleria, quindi non si possono fare paragoni su come è andata la nostra carriera, per me è come giocare in un altro campo vicino a quello dove giocano i campioni del mercato, ma molto differente. Io gioco ancora perché mi piace giocare e se non lo faccio mi sento morire. Questa è la differenza, che io gioco gratis perché amo questo sport.

Intanto ci chiudono in faccia il terzo piano e dobbiamo uscire da Hauser & Wirth. Cena a Long Island con Dario. Si mangia vietnamita.

È mattina e bisogna tornare in campagna... Leone intanto ha la febbre da ieri e mi preoccupa.

Ci mettiamo in macchina e prima di lasciare la città (io, Anna, Emiliano e Filippo) facciamo una tappa all'ex Essex Street Market per visitare (su appuntamento precedentemente fissato con Alessandro Facente) il progetto che Andrea Nacciarriti (un vecchio amico) ha realizzato all'interno del mercato oramai trasferito all'altro lato della strada.

Firmiamo una liberatoria e ci incamminiamo al buio all'interno dei corridoi del mercato. Sembra una di quelle trasmissioni che iniziano con la scritta "vent'anni dopo la scomparsa dell'uomo". In effetti è molto strano per me aggirarsi dentro al mercato completamente deserto e con tutti i banchi svuotati e abbandonati. Neanche a marzo di quest'anno con Stefano Giuri e Matteo Coluccia ci recavamo li tutti i giorni a fare la mia performance di fine residenza (all'Artists Alliance inc) dentro al Cuchifritos, la galleria che fa parte dello Studio Program dentro al mercato. Facevamo la performance per tre ore al giorno visti solo da uno spioncino sulla porta. Fuori era pieno di banchi di immigrati, prodotti di ogni etnia e un continuo passaggio di gente. Ora sembra ci sia stato un terremoto, un countdown con numeri rossi scorre veloce al buio e la galleria è completamente bianca (perfino il pavimento) e illuminata dalle uniche luci accese in tutto il mercato.

Torniamo in campagna.

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511 S. Mountain RD, Gardiner, NY

18 novembre 2019

Sapevo che doveva succedere.

Che sarebbe arrivato quel momento in cui avrei parlato del lavoro di Marinella (Senatore).

Avevo visto Marinella sotto casa mia a Firenze da Virgilio Sieni mentre spiegava la sua scuola The school of narrative dance. In quella occasione ci eravamo ritrovati, non ci vedevamo da anni e lei mi ringrazia a di essere andato a quell'incontro come se avessi fatto chilometri per andarla a trovare, mentre in realtà ero solo sceso di casa, ma lei non lo sapeva. Ci siamo rivisti sempre per una "parata" al Queens Museum circa tre anni fa e li ho capito effettivamente quello che fa, cosa vuol dire per lei insegnamento orizzontale e soprattutto ho afferrato nei dettagli cosa davvero non mi convince. Ma lasciamo stare il mio mero giudizio da neofita della performance sociale e addentriamoci in questa giornata di sole a Cold Spring: c'è un motivo se si chiama Cold Spring, ed è semplicemente che si gela, senza mezze misure, si ghiaccia e basta, anche al sole. Tutto sommato però la situazione è piacevole, arriviamo in macchina da Gardiner, sono circa cinquanta minuti di strada, basta scavalcare l'Hudson. Sembra che la parata stia iniziando appena giungiamo nella ridente cittadina, iniziamo a salutare amici e amiche accorsi da New York City, in particolare Beatrice la moglie di Dario, (senza Dario) Lorenzo Giusti, direttore della GAMEC di Bergamo e poi tra i più coinvolti nella cosa, Vittorio Calabrese, giovane curatore al servizio di Nancy e Giorgio Spanu (i padroni di casa: Magazzino Italian Art, situato proprio a Cold Spring, oltre che in altre sedi in città). Giorgio e Nancy hanno creato questo luogo in mezzo al nulla per promuovere l'arte italiana, principalmente l'Arte Povera, unico movimento in grado di uscire oltre la frontiera italiana, dopo il Futurismo. Torniamo alla parata.

Qualcuno mi indica che tra le tante persone venute a omaggiare la School of narrative dance c'è anche Jovanotti, noto cantautore cortonese che spesso bazzica gli Stati Uniti (musicalmente con scarso successo mi dicono... In Italia invece riempie gli stadi con le sue date). Mi fa un po' di tenerezza a dire la verità. Penso a mio figlio, Leone, che è dai nonni a Cortona con la febbre... I suoi nonni sono di li, come Jovanotti.

Anche Marinella negli ultimi anni è diventata una pop star: pop perché coinvolge genti di vario rango, soprattutto miserabili che aimè non canteranno, né balleranno mai alla Scala, e star perché questa sua attenzione al sociale l'ha sta facendo entrare in tutti i musei del mondo. Buon pro le faccia.

Certamente lei è una che si impegna, si trasferisce nei posti dove lavorerà, cerca volontari che la assistano, crea connessioni e soprattutto durante le parate dà voce a un sacco di gente che altrimenti sarebbe isolata. Il suo è un lavoro prima di reclutamento (attraverso annunci di vario genere), poi di messa in scena attraverso la parata. Tutti sono chiamati a dimostrare ciò che sanno fare. Quando ero piccolo c'era la Corrida di Corrado, un precursore dei talent televisivi di oggi, ma forse all'epoca si vinceva un tacchino ripieno o forse mi sto confondendo con Il pranzo è servito (sempre condotto da Corrado). Scherzi a parte, mi rende felice vedere come la gente risponda entusiasta a queste chiamate, come si mettano in gioco e quale gioia doni agli astanti tutta questa frizzantezza che Marinella è in grado di creare. Brava davvero. Ora poi che i grandi curatori si sono accorti di lei mi fa ancora più piacere. Un paio di anni fa Cecilia Alemani l'aveva invitata ad allestire "l'ingresso" dell'High Line proprio a un tiro di schioppo dal Whitney Museum, e Marinella aveva installato una scritta al neon (non ricordo cosa ci fosse scritto) e delle luminarie pugliesi. Ora sulle scritte al neon non credo si debba aggiungere più nulla. Una riflessione invece merita l'argomento Luminarie pugliesi. Qualcuno se lo ricorda ancora Pierluigi Calignano (forse ora fa il benzinaio a Gallipoli con suo padre), nel 2007 fece una mostra da Antonio Colombo con delle luminarie pugliesi (quindi di casa sua), di una bellezza rara. Erano delle enormi ruote di legno con incastri complicatissimi degni di un ingegnere leonardesco più che di un falegname, e al loro interno avevano tutto un sistema di luci progettate ad hoc che accese tutte insieme (le ruote) facevano una costellazione luminosa davvero portentosa. Ora si è arrivati a scrivere MINCHIA con le luminarie pugliesi, l'abbiamo visto tutti per strada nell'ultima edizione di Manifesta a Palermo. Era l'ultima parola che si poteva scrivere, prima hanno fatto di tutto, artisti e non. Non vi è trullo o masseria che non abbia in bagno o in sala da pranzo o una luminaria, quasi mi è arrivata a noia addirittura vedere le feste popolari di paese addobbate con queste parature. Creativi di ogni sorta vi esorto a rinunciare all'idea di utilizzare delle luminarie pugliesi da qui in futuro. Non se ne può più e ci state rovinando la festa (di paese).

Bene, questo era più uno sfogo personale, che c'entra poco con il tema in ballo.

Torniamo alla Parata.

Per Cold Spring è stata una bellissima giornata, che molti ricorderanno, è questo il senso dell'arte, fare in modo che tutti abbiano godimento del bello. In questo Marinella è brava. Non so cosa sia veramente l'impegno sociale, perché non me ne occupo e non voglio dare giudizi che sarebbero fuori luogo, come se mi chiedessero di parlare di politica. E la chiudo qui.

Parentesi: mentre c'era la parata, tra cornamuse, tamburini, bambine ballerine, poeti alla finestra, cantanti d'opera, break dancers ecc, sono stato risucchiato dentro un antiquario enorme e dopo una ventina di minuti o forse più, sono risbucato nella parata, ma con un cappello nuovo! Tutto come se non fosse mai cambiato nulla.

Dopo la parata, Giorgio e Nancy invitano tutti al Magazzino per una "pizza e birra", ci mettiamo in macchina e raggiungiamo il posto, un po' dislocato dal centro cittadino.

Qui ci accoglie un tendone con pizza e birra a volontà (che io non mangio perché allergico al pomodoro) e ci incamminiamo nel bellissimo museo privato (ma pubblico) dell'arte italiana di Giorgio e Nancy. La collezione è straordinaria, devo ammettere, le sale non sono affollate e le opere, con grande respiro, godono di ottima illuminazione. Tra tutti apprezzo Luciano Fabro (non ho studiato a Brera quindi non sono di parte) e Giovanni Anselmo, mi colpisce un Boetti in bagno e resto un po' deluso dall'unico piccolo pezzo di Pino Pascali, che forse meriterebbe più spazio, se avesse potuto sgomitare in vita tra i Merz, gli Zorio e i Kounellis. Si torna nel tendone per un brindisi di ringraziamento. Tutti felici rientriamo casa, Marinella è stata molto carina con me anche questa volta e lo stesso posso dire di Giorgio e Nancy, che hanno promesso di venire a trovarci in residenza. Lo faranno? Chissà. Ma la domanda che mi faccio con ancor più punti interrogativi è: dove li mettono gli Spanu i giovani artisti che comprano? Non ve ne è traccia.

Un'altra giornata è iniziata e volge al termine, non ho fatto nulla di concreto se non l'invito per la Scuola di Santa Rosa. Allora mi viene in mente di chiedere a Filippo se vuole posare per un ritratto. Accetta e lo trucco come un arlecchino usando della carta bianca per fare una gorgiera improvvisata. Alla fine sono molto soddisfatto del mio dipinto, è piccolo e gli assomiglia anche, non che sia questo lo scopo di un ritratto, ma quando succede va ancora meglio. Forse non ho mai visto Filippo immobile per tanto tempo, di solito è un grillo, salta dappertutto, si arrampica sugli alberi, spacca la legna, gioca a calcio, insegue il vento.

Stasera si va in città, domani c'è Santa Rosa.

ps: Da qualche sera io e Anna abbiamo iniziato a vedere la nuova serie di Twin Peaks (nuova tra virgolette, del 2017, non quella vecchia). Fa una certa impressione stare in aperta campagna con zero luci intorno la sera e nessun rumore. Siamo all'episodio numero 9.

Luigi Presicce


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511 S. Mountain RD, Gardiner, NY

25 novembre 2019

Si parte ancora per New York City, da New Paltz in autobus. Sono due ore di viaggio, nell'autobus c'è Wi-Fi, prese per caricare i telefoni e i servizi igienici. Anche questa settimana è stata abbastanza impegnativa. La Scuola di Santa Rosa è stata molto bella, anche questo secondo appuntamento è stato ben frequentato, è venuta Michela Martello, una vecchia conoscenza della scuola, e anche Maria, la moglie messicana di Davide Balliano, che insieme si sono messi a disegnare con mia grande sorpresa e gioia. Maria lavora per Laurence Weiner, uno dei più importanti artisti al mondo (molto anziano oramai). Davide in questi anni non era mai riuscito a passare dalla scuola, a parte appunto l'ultima volta, in cui però si era perso in chiacchiere e non aveva neanche tirato fuori dalla borsa il blocco dei disegni. Lui fa un lavoro "monacale", è sempre in studio a fare i suoi quadri e ha sempre delle consegne imminenti. È uno dei pochissimi italiani che hanno una galleria qui a New York (molti che sono qui, da più di vent'anni come Francesco Simeti, ancora non ce l'hanno). Davide è stato assistente di Marina Abramović per molti anni, le male lingue dicono che questo lo abbia aiutato qui a New York, ma da quando lo conosco non l'ho mai sentito nominare Marina nemmeno per sbaglio ed è forse già un miracolo che il suo lavoro non abbia minimamente a che fare con la mamma di tutti i performer (non la mia). Forse la dedizione monacale, questo sì potrebbe accomunarli, ma niente altro credo, davvero due lavori agli antipodi, per fortuna. Ah dimenticavo, una volta quando ci vedevamo più spesso con Davide, che avevamo casa vicina a Greenpoint, mi ha suggerito di incontrare l'ex marito di Marina, Pierpaolo Canevari che ora si è trasferito vicino Roma. Mi ha detto che ci potrebbero essere molte cose in comune con lui e che è una persona eccezionale. Tutto qui, per quanto riguarda la mamma dei performer (in maniera indiretta).

Il giorno dopo Santa Rosa ho scritto a Davide per dirgli di quanto ero contento che lui e Maria fossero venuti e avessero anche disegnato e lui mi ha risposto con il suo solito garbo entusiastico "... La tua Scuola di Santa Rosa è un gioiello di socialità e genuinità davvero uniche nella melma newyorkese. A più tardi!"

Io e Anna lasciamo il Sel Rrose e la Scuola di Santa Rosa per spostarci a vedere alcune mostre con Mattia Barbieri e Monica Mazzone. Arriviamo in un posto a Brooklyn e scopriamo che la mostra che siamo andati a vedere fa veramente pena, sembra di stare nella provincia più sperduta dove è stata organizzata un'esposizione della signora che due volte a settimana fa il découpage con le sue amiche anziane. Quadri materici con forme infantili (dinosauri verdi e unicorni rosa nello stesso quadro) pieni di paillettes e colpi casuali di bomboletta spray. A New York c'è posto per tutti. Questo è quello che mi viene da pensare mentre guardo le facce di Mattia e Monica mortificati per averci portato fin lì. Affoghiamo tutto in un ramen meraviglioso. La città si salva solo per l'enorme offerta di cibo etnico che offre... altrimenti diventeremmo tutti dei ciccioni incredibili stando qui.

Giorni addietro mi aveva scritto Ian Tweedy per invitarmi alla sua nuova mostra personale in città (sempre che ci fossi stato...). Essendo di mercoledì, abbiamo deciso di rimanere in città con l'occasione della mostra. Devo dire che la città mi manca molto, anche se in campagna si sta una favola. Nel tempo mi sono costruito le mie giornate ideali, facendo più o meno sempre le stesse cose e andando nei posti specifici nei giorni appropriati della settimana. Mi manca andare a far colazione nei miei posti preferiti o girare per i flea market il sabato e la domenica in cerca di giochini per Leone e vestiti marcatamente americani per me; ma stando qui solo un mese forse non avrei il tempo di annoiarmi dei miei acquisti e di rivenderli il giorno prima della partenza.

Andiamo alla mostra di Ian dopo essere stati a fare acquisti in due dei miei negozi di secondhands preferiti. Mi rendo conto che ora compro solo vestiti anni cinquanta e che il mio modo di vestire sta cambiando. Con l'età si iniziano a indossare abiti più comodi, ci si stanca di più, si ha meno tempo per imbellettarsi.

Dandysmi a parte arriviamo alla mostra.

Dentro incontro molti amici italiani, tra cui Antonio Rovaldi che non vedo da un'eternità, nonostante sia lui che io frequentiamo New York assiduamente. Antonio è sempre bello come al solito, ha una barba lunga e brizzolata che all'epoca non aveva. Con lui siamo stati anche in vacanza in Grecia a Skiros e abitavamo a pochi metri quando ero a Milano. Ci raccontiamo un po' di cose e poi iniziamo a dare attenzione ai quadri di Ian. Ian e l'Italia sono molto connessi, lui ha vissuto per anni a Milano prima di ritornare a vivere a New York, lavora ancora con una galleria di Roma molto buona. Qualche tempo fa lui non è stato molto bene, ha subito un intervento chirurgico in testa, ma sembra essersi ripreso alla grande. Ho scoperto tutta questa faccenda l'anno scorso qui a New York, Davide mi ha detto che diversi artisti hanno donato le proprie opere per pagare l'assistenza medica di Ian. Pare che fosse una cosa che è circolata sui social per diverso tempo, ma che io non ho colto non avendo più a che fare con Facebook e non avendo ancora un profilo Instagram. Praticamente non ho saputo nulla se non a cose fatte. Mi rincuora aver regalato un disegno a Ian un giorno che era venuto a trovarmi in studio a Milano, almeno questo mi rasserena e soprattutto il fatto che ora stia bene e abbia lavorato a una nuova mostra. La mostra in sé non mi stupisce più di tanto, sono dipinti di grandi dimensioni con piccole fasce figurative che raffigurano persone prese in momenti qualsiasi in luoghi non meglio specificati, mente grandi campiture monochrome coprono, come una specie di Rothko, la stragrande superficie della tela. I piccoli quadri invece mi piacciono molto, hanno un sapore diverso, più incerto e le cornici aiutano molto in questa visione intima del pezzo ritagliato di tela che mostra quasi dei piccoli segreti pittorici. Lasciamo anche Ian con la promessa di rivederci a Santa Rosa questo martedì e intanto raggiungiamo Dario e Beatrice all'Ear Inn, un posto molto americano dove la parola Ear è ricavata da un'insegna rossa al neon in cui parte della B è bruciata. Direbbe Bar in definitiva. All'interno tutti i tavoli sono apparecchiati con una tovaglia di carta bianca e un bicchiere con dentro dei colori a cera che invogliano i commensali a intrattenersi disegnando. Si narra che ci siano passati tutti i più grandi artisti della città tra cui anche il nostro Francesco Clemente, ormai qui da milioni di anni.

La serata scorre piacevolmente anche se i discorsi cadono sempre sul fatto che, sia io che Beatrice non abbiamo una galleria attualmente (la sua galleria qui ha chiuso, ma ne ha una in Italia, io non ne ho una né qui né in Italia).

Si rientra a Gardiner dopo pranzo del giorno dopo, mentre la mattina troviamo il tempo di visitare qualche mostra a Chelsea. Ci imbattiamo in una personale di Hernan Bas in cui mi rendo conto che anche ai suoi livelli si possono dipingere mani totalmente senza alcun rispetto dell'anatomia, sfiorando il ridicolo (non sempre ciò che appare giusto in fotografia risulta corretto in pittura). Poi una strana mostra di Charles Ray in cui troviamo delle sculture originali del barocco italiano su piedistalli asettici e crocefissi dello stesso periodo appesi al muro insieme a un dormiente su lettino da campeggio realizzato completamente in alluminio specchiante. Cerchiamo invano una mostra di Matthew Barney, ma ci rendiamo conto che non è a Chelsea ma in un'altra sede della galleria a Midtown. Nel girovagare si scorge una mostra di Andro Wekua, molto noto in Italia finché era solo giovane e bravo, ma sparito a un certo punto risucchiato nel buco nero (dorato in realtà) degli artisti costosi.

Incontriamo poi la mostra di Karem Kilimnic, una delle mie pittrici preferite, che espone oltre a fotografie (ritoccate a pittura e non) e piccoli quadri installati come si faceva nel periodo della Street art, ma più composti, delle piccole sculture souvenir come la Tour Eiffel di Parigi, il modellino di un veliero e la Torre di Pisa decorate con alcuni glitter appiccicati sopra. Allegro, ma non troppo (per usare terminologie musicali).

C'è molto traffico e mi sono stancato di stare seduto su questo autobus... In questi giorni ho dipinto un grande quadro, un autoritratto con cappello alla texana e vestaglia di seta. Molto bello. Forse dovrei parlare solo di questo, ma a me disgusta parlare del mio lavoro, mi sembra così pretenzioso.

Luigi Presicce


Luigi Presicce


Luigi Presicce


Luigi Presicce


Luigi Presicce


Luigi Presicce


Luigi Presicce


Brooklyn NYC

5 dicembre 2019

Oggi si parte, si torna in Italia. Il volo è da JFK alle 22:20, c'è una giornata davanti, l'ultima di questo viaggio.
Ieri abbiamo visto una mostra bellissima e commovente di Ugo Rondinone in cui quattro proiezioni giganti mostrano John Giorno (ultimo compagno dell'artista e recentemente scomparso) che vestito in frac recita una specie di ringraziamento infinito. Un gesto davvero importante. mi domando solo se Rondinone riesca a entrare o meno in quella sala, io avrei grandi difficoltà.
Torniamo a oggi.
Io e Anna decidiamo di andare a vedere il PS1, lei non ci è mai stata. Tentare di richiudere le valige e pesarle occupa gran parte della mattinata, siamo a casa di Emiliano e Jaehee a Brooklyn, ieri gli ultimi acquisti, già fuori dal peso consentito dei 23 Kg per il valigione, i 7 per il bagaglio a mano e lo zaino che sembra piombato (di solito non viene pesato o considerato). Leone ha chiesto espressamente l'ennesimo Uomo Ragno, ogni richiesta va esaudita, l'amore della mia vita. Gli ho comprato altre mille cose, tra cui una tazza a forma di testa di Chewbecca di Star Wars, un Dart Fener sempre di Star Wars, svariati calzini di supereroi, un paio di calzini a serpente che sembra ti ingoino la gamba, cappellino di questa stagione dei New York Yankees ecc.
Non vedo l'ora di vederlo, probabilmente è l'unica ragione che mi fa tornare, non ne ho altre.
Ma torniamo alla gita al PS1. Non sappiamo che mostra troveremo, andiamo alla cieca, a volte è bello anche non smanettare troppo su internet e lasciarsi sorprendere. Troviamo Theater of Operations: The Golf War 1991-2011.
La mostra ovviamente sembra per tanti versi anti americana, i ritratti di Saddam Hussein si sprecano come innumerevoli sono i libri d'artista presenti quasi in tutte le sale. Pare che gli artisti Iracheni abbiano prodotto solo libri mentre fuori dagli studi scoppiavano le bombe. Molti di questi libri sono fatti con manate di color rosso, impronte di mani rosse (sangue?), vetri appiccicati, fili spinati e altre cose riferibili palesemente alla guerra. Un quadro atroce dipinto in maniera fotografica mostra un uomo nudo in sala rianimazione circondato da medici che cercano di intubarlo e rianimarlo. Un quadro da salotto, non c'è che dire. Per tenere allegro il pubblico ancora fotografie e video di gambe o braccia abbandonate per strada, teste scoppiate, gente mostrata, amputata o ridotta a brandelli. Tutto per niente allegro. La mostra per fortuna è farcita anche da artisti non iracheni che nel loro impegno sociale, distante dai campi di battaglia, donano "leggerezza" ad alcune sale. Spicca tra questi un collanone tipo RUN DMC con simbolo della CNN in gomma piuma rivestito di carta dorata di Thomas Hirschhorn, un grande disegno nero con la scritta STOP BUSH di Richard Serra con il famosissimo uomo incappucciato con le braccia tese in piedi su uno sgabello torturato con la corrente elettrica, un quadro con un uomo nudo aggredito e morso da tre cani di Fernando Botero, pittore Colombiano di Pietrasanta, noto per i suoi personaggi sovrappeso. Spicca per genialità il solito Francis Alys che in un video dal titolo Color Matching girato a Mosul (Iraq), mostra le mani di un pittore che prepara la tavolozza con dei tubetti di colore nel tentativo (forse) di ritrarre dei soldati su dei carri armati fermi nel deserto. La mostra mi lascia una specie di tristezza in fondo allo stomaco. Bisogna partire. Altra tristezza.
Questi ultimi 8 giorni sono stati intensi, ho cercato invano di ricevere delle indicazioni dall'aldilà per procedere con la mia idea (vaga) di performance, ma non è arrivato nulla, né in sogno né sotto altri segni, quindi ho continuato a dipingere, mentre ha iniziato a nevicare molto forte. Tutti lavorano nella casa. Anna finisce la sua composizione fatta di un pannello in legno sagomato, dipinto e sospeso, una palla da bowling dipinta e una struttura in carta pesta ondulata anch'essa dipinta. Dice di volerla chiamare Odalisca. Intanto anche Jemila continua a saldare una struttura enorme fatta da due semi sfere in ferro, mentre Savannah passa il suo tempo ad arrotolare pagine del New York Times facendone delle piccole frecce appuntite.
Filippo ha terminato il suo divano e mi sembra molto felice.
Jemila non è stata molto espansiva, si apriva di solito solo alle cene dopo aver bevuto e mangiato, ma più bevuto. Suo marito è venuto a trovarla per il Thanksgiving e quella sera abbiamo giocato a disegnare animali: i partecipanti al gioco devono (su indicazione di uno solo degli stessi) realizzare un piccolo disegno di un animale in cinque secondi. Chi fa la richiesta decide anche chi sarà il vincitore scegliendo tra foglietti anonimi il suo disegno preferito. Chi vince sceglie cosa far disegnare agli altri. Sono venuti fuori tanti disegni davvero infantili e gioiosi, gli unici animali presenti sul tavolo di questo Thanksgiving completamente vegetariano.
Savannah, lei è diversa. Molto affettuosa da subito. Nei primi giorni di residenza ho capito che in fondo già sapevo chi era, solo che ora non è più chi era prima. Anni addietro, mi ricordo c'era un personaggio strano che scriveva romanzi truci di storie americane, famiglie dissolute, abusi, bambini con madri drogate e tutta una serie di nefandezze. L'autore era JT LeRoy.
Savannah è JT LeRoy. O almeno lo era, in parte. La storia, che pare abbia fatto scandalo in America, era che lei adolescente androgina, interpretava in pubblico l'autore dei romanzi che scriveva la cognata in forma anonima. Alla gente piace quel velo di mistero che celano gli autori anonimi, vedi Liberato o Banksy. Quindi per tornare a "casa nostra", Savannah ora dopo tanti anni sta cercando di uscire fuori da quel personaggio, a fatica, visto che ha scritto un libro in proposito ed è stato fatto un film sulla sua vita da JT LeRoy che è uscito l'anno scorso. Credo abbia sofferto, in America sono stati spietati quando hanno scoperto che non era lei a scrivere i libri, ma sua cognata. Trovo che questa storia abbia avuto un'attenzione fin troppo esagerata, in fondo chi se ne frega chi ha scritto un libro, è più importante chi lo legge, e come accade tante volte non sempre abbiamo visto o conosciamo chi sono gli autori di quello che leggiamo, anche su Shakespeare la questione della sua vera identità è aperta. Forse si tratta del sentirsi presi in giro dall'autore su sentimenti condivisi che scatenano le letture, non vedo altro su cui accanirsi. Asia Argento ha tratto un film da un libro di JT LeRoy, è stata invitata al festival di Cannes e tutto è passato per il racconto di una storia vera. Ma in fondo, ripeto, chi se ne frega se è vero o falso, se Savannah ha avuto o no una love story con Asia Argento (non sarebbe né la prima né l'ultima), pensiamo piuttosto a se erano dei bei libri o a se era un bel film. Su questo non so rispondere, non li ho mai letti, mentre il film (Ingannevole è il cuore più di ogni cosa) l'ho visto molti anni fa, ma mi ricordo solo dei corvi finti che si muovevano in maniera strana.
Torniamo alla residenza.
Prima di ripartire per Gardiner la settimana scorsa eravamo stati a vedere il Guggenheim. Qui all'ingresso trovo un ragazzo sconosciuto che mi omaggia del suo biglietto, riprende a sorpresa la mia onda verde degli ingressi gratuiti nei musei americani. All'interno troviamo una mostra curata da artisti che hanno avuto l'opportunità di scavare nei depositi del museo e tirare fuori la loro visione della collezione. Il tutto risulta affascinante perché diciamolo alla fine chi ne capisce di arte è solo chi la fa, gli artisti. All'inizio della mostra si incontra una grande parete con una miscellanea di piccoli quadri o disegni di autori che si farebbe fatica a riconoscere.

Una natura morta di Rothko, un paesaggio con colori arcobaleno di Miró e altre fantastiche chicche di questo genere. Salendo su per la spirale tutto diventa più pacato, meno sorprendente. Ogni piano è dedicato alle scelte di un solo artista e quindi si segue una logica o semplicemente un gusto. Spuntano i Philip Guston (astratti e figurativi), le Louise Bourgeois, i De Kooning, i Richter, i Giacometti, i Lawrence Weiner e un trittico strepitoso di Francis Bacon (visto milioni di volte sui libri). È fantastico vedere quante opere strepitose siano nascoste nei depositi dei musei, ci vorrebbero mille di queste mostre per tirarle fuori o fare come il Brooklyn Museum che lascia aperti i propri caveau a chiunque li voglia visitare.
Tornato a Gardiner, dopo le solite due ore di pullman, mi metto a fare un cappellino da arlecchino e una gorgiera con degli scarti di pelle e indossatili mi trucco con cerone e rossetto rosso. La postazione da autoritratto è sempre lì, fissa, mi siedo e inizio un nuovo dipinto. Da subito capisco che non mi piace (il quadro), è bello solo il fatto che io sia in posa a dipingere me stesso truccato da arlecchino.
Finisco lo stesso il dipinto anche se non mi convince e ne inizio un altro utilizzando come modello una vecchia fotografia anni cinquanta di un ragazzo che sembra David Lynch, ma che alla fine del ritratto sembrerà De Kooning da giovane. Intanto inizia a nevicare e ben presto si alza una coltre di neve spessa. Fa freddo e tutti gli autobus sono bloccati, non si parte per New York né per nessun altro luogo, anche il truck (il pickup) è bloccato. Io e Anna facciamo invano le valigie, ma alla fine dobbiamo aspettare un altro giorno per partire e lasciare definitivamente (almeno per il momento) Lacasapark.
Ne approfittiamo per un'ultima cena con gli altri, mentre Emiliano che era in Italia per un matrimonio è rientrato a Brooklyn e speriamo d'incontrarlo il giorno dopo se riusciremo a partire. Si fa un altro gioco e questa volta bisogna indovinare dei personaggi famosi o soggetti che tutti abbiamo scritto su dei pizzini (piccoli fogli di carta ripiegati). Si formano due squadre, io sono con Savannah e Filippo, dall'altra parte Anna e Jemila. Si devono prima indovinare i soggetti attraverso una descrizione a parole, poi solo attraverso gesti e in fine usando una sola parola. Ogni componente della squadra cerca di far indovinare ai propri compagni il personaggio misterioso non senza brancolare nel buio o facendo gesti davvero buffi. Alla fine vince la mia squadra, la mia difficoltà con la lingua emerge come un sottomarino russo dalle acque gelide dell'oceano e non rimane altro che farsi delle grasse risate. The Last Supper dice Jemila. Ridiamo, ma con un po' di tristezza. L'indomani riusciamo a partire, le strade sono praticabili e c'è un bel sole che riflette una luce incredibile sulla neve bianchissima intonsa. Lasciamo la casa, le ragazze e un pupazzo di neve che ride fatto il giorno prima per realizzare la fotografia dell'invito della Scuola di Santa Rosa. È già martedì, bisogna arrivare in tempo in città, l'appuntamento è alle 4 al Sel Rrose, mi hanno scritto in molti che passeranno per i saluti, si parte davvero e i saluti ci vogliono.
Io e Anna abbiamo dei valigioni giganti, Filippo ci aiuta in questa traversata da muli. Arrivati in città lasciamo tutto a casa a Brooklyn e "corriamo" verso il Sel Rrose con un Uber. Ci siamo, iniziamo a disegnare e ad accogliere gli ospiti della Scuola che arrivano a scaglioni. Alla fine siamo in tanti e si presenta anche Christian Chironi (per caso a New York) che ha saputo di Santa Rosa. Tutti sono intenti a chiacchierare, bere o disegnare, è qualcosa di davvero unico la Scuola di Santa Rosa e quando andiamo via dal locale le ragazze del Sel Rrose ci dimostrano il loro dispiacere nel dover chiudere, per ora, con questo appuntamento speciale del martedì. Un'ultima cena ancora con i santarosini e poi un drink di fine serata con Emiliano e noi del Lacasapark su una terrazza di un hotel con vista notturna di Manhattan e Williamsburg. Tutto molto romantico e al contempo triste, mancano due giorni alla partenza e l'indomani ci sarà un'ennesima ultima cena a casa di Dario e Beatrice. The Last Supper!

Luigi Presicce


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Luigi Presicce
Diario di una residenza Lacasapark NY
@ 2019 Artext

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