LA - Marco Bagnoli sente il richiamo dell’antichità, senza pretesa, per richiamo elettivo, come un’uccello viene attratto dal proprio simile. Cosa cerca o cosa, comunque, ritrova in questa memoria? C’è qualcosa di speciale, per lui, a Pontorme? O è più semplicemente e inevitabilmente un mandato, un rapimento, il suo?
MB - C’è questo luogo a Pontorme, ove ti ho presentato il San Michele Arcangelo che fu dipinto dal
Pontormo per la chiesa della sua città natale, che è anche la mia.
Già la modalità di questa presentazione, in una cappella della Chiesa di San Michele, deve averti
fatto specie, se mi chiedi al riguardo. Poco lontano, nella casa del pittore, avevo esposto una mia
scultura, il "Noli me Tangere" (1), ispirata a un altro suo quadro, Giuseppe in Egitto, dove raffigurava
una statua di un uomo in piedi su una colonna. Nelle intenzioni del pittore quella ambigua figura era
certo una statua vivente, cosa impossibile a realizzare in scultura. Al Forte ho immaginato di tornare
sui miei passi e presentare la statua ancor prima di essere scolpita, cosa anch'essa impossibile dopo
le esperienze dadaiste e il suprematismo di Malevich.
Ma la visione è ancora più complessa poiché la statua si riflette su uno specchio d'acqua convesso
che ricorda invece la presa di quell'essere indistinto ritratto da Jacopo sulla tavola del San Michele e
schiacciato sotto il piede dell'angelo. Esso afferra e rivolge a noi una ciotola specchiante che appare
sovrapponibile al ginocchio nel momento in cui la posizione di Michele/Apollo pare evocare la
famosa coscia d’oro di Apollo, simbolo della proporzione aurea. Quell'essere si rivela occultandosi
mentre tira in basso il braccio della bilancia della giustizia. Come del resto nell'arcangelo son
evidenti e volute le sembianze del dio Apollo.
Siamo impietriti dalla sua bellezza e come atterriti dalla sua implicita richiesta: “Chi sei?”
Ho voluto per questo orientare lo sguardo verso la Basilica di San Miniato cercando una risposta che non sia banale.
Janua Coeli, (1988), Galleria Locus Solus, Genova, 1988
LA - Quindi è così che “Chi... Come Dio?” - il significato in ebraico del nome Michael – può
diventare nei confronti di uno spettatore, anche fosse ignaro, “chi sei?” e quindi, se smette di essere
ignaro, diventa finalmente: “Chi Sono Io?”.
MB - La coscienza è talmente inevitabile che invece di pensare qualunque metafisica potremmo
interrogarci direttamente, nudamente. San Miniato designa anche un luogo dello spirito, ha un
richiamo riconducibile a questa ricerca che si declina in una narrazione religiosa.
L’arte e la religione, come anche la scienza, sono narrazioni parallele e intrecciate.
LA - Che cosa è per Marco Bagnoli il sacro nell’arte?
MB - Il Sacro è oggi percepito in maniera diffusa, è disperso o in sospensione nell’esperienza umana
essendo talvolta “spiritualità” o nemmeno avendo una designazione; è sempre meno concentrato in
punti specifici dell’esperienza come lo sono quella religiosa, mistica, ascetica.
Certamente gli artisti fanno la loro parte in questa dispersione con la loro dissimulazione, ed ecco
che oggi il sacro ci ricorda un certo paradosso, essendo dappertutto ma non avendo centro in nessun
punto preciso.
L'anello mancante alla catena che non c'è, (1989), Sala Ottagonale della Fortezza da Basso, Firenze, 1989
LA - Se non mi sbaglio prendi ad esempio le forme architettoniche classiche per derivarne un
significato che riguarda la percezione, e quindi il significato profondo, perciò estetico.
MB - Sì. L’antica forma della cupola, se la riprendiamo dall’architettura bizantina, come da quella
ebraica e islamica, era a forma emisferica, volendo riferirsi all’archetipo della sfera celeste
mostrandosi perciò senza una cuspide e priva di una centralità immediatamente rilevabile
dall’occhio; in questa circostanza ogni punto di osservazione poteva essere un punto di centralità
rispetto a un asse, che in realtà non c’era o era enorme o, per così dire, compreso in tutta la cupola.
Compito del sacerdos di ogni religione era quello di portare le moltitudini a entrare in relazione con
il cielo riunendo tutte le prospettive in un insieme coeso da smarrimento-fede-rinvenimento.
Quindi il Brunelleschi e gli altri, con la loro rivoluzione rinascimentale, non fanno altro che centrare
un asse prospettico che esclude altre possibilità. Eccoci, con questa metafora architettonica nella
prossimità al sacro, giammai nella sua traiettoria.
E non è forse così che, oggi, la profanità si può declinare comunque come
prossimità al Sacro?
E così il Sacro – in quanto spiritualità dispersa - si afferma come il rinvenimento dell’unica
centralità data, a cui si riferiscono l’Io Sono, il Puro Testimone e la Coscienza intesa come - e
riportata ad un – risveglio.
Metrica e Mantrica, (1982), Cappella Pazzi, Basilica di Santa Croce, Firenze, 1984
LA - Mi pare che un tuo particolare lavoro, quello alla Cappella Pazzi, sia stato un momento
importante di una tua rivelazione in tal senso...
MB - Sul secondo numero della rivista Spazio x Tempo, Paolo
Marinucci, nel suo intervento “Kevalalila” scrive a riguardo di “una
circonferenza che è ovunque, mentre il centro non è in nessun luogo”,
aggiungendo una nota che rimanda ad Ibn Arabi, secondo Guenon (2).
Questa frase è molto citata fin dall’antichità. In "Altre inquisizioni" (3)
Jorge Luis Borges cita a proposito una frase apparentemente simile,
ma di opposto senso attribuita a Ermete Trismegisto che, secondo il
breve racconto dello scrittore, suonerebbe infatti: "Dio e' una sfera
intellegibile, il cui centro sta dappertutto e la circonferenza in nessun
luogo". Borges ci narra che l'ha trovata Alanus de Insulis nel testo
ermetico Asclepio, scritto da Ermete Trismegisto, e ne insegue le
avventure fino a Blaise Pascal.
Questa inversione di senso proveniente da una diversa intenzione
dovuta a epoche e a mondi diversi definisce, letteralmente e a causa di
queste circostanze, una direzione che andrebbe verso la dispersione
della causa nell'effetto. Dunque l'assialità, tradizionalmente concepita
nell’occidente cristiano come la chiave di volta del sacro, si disperde
nella conquista di una qualche resa prospettica, mentre a me ogni
prospettiva non basta e intenderei – ovunque - una scacchiera in cui
orientare lo sguardo quando è reso libero dalla traiettoria di un punto
di vista che sia fondante o relativo.
Scrivevo: "Il centro è ovunque e in qualsiasi direzione, il centro
dunque accerchia la visione". E lo riferivo a proposito di un’opera che
installai nella cappella Pazzi a Firenze, dentro la chiesa, in quel
monumento
sferico del Brunelleschi dove la cupola sorge sulla forma
quadrata che la sorregge. Quindi la scacchiera qui si rifletteva in una
proiezione sferica verso l’alto, divenendo nell'occhio un quadrato di
luce riflesso nella cupola, che è il cielo col suo zodiaco.
Tra l’emanazione conica della nostra vista e la sfera della visione che l’accoglie, accade qualcosa
che ci rende una inaspettata rivelazione; dallo spazio centrale, guardando in su, la vista conica va
verso l’alto in tangenza con la forma sferica, ed è così che si crea un sottile contorno iridescente. È
grazie al contorno però, indefinito e cosmico, che si rivela il centro occulto emanante – che resta
tale anche se è evidente.
Gli antichi giocavano con la parola “pupilla” come chi non la vuole relegare a mero fatto
anatomico.
Così pure sarà per la natura della luce, che da Sorahvardi a Einstein apparirà sempre più evidente
ma sempre più indimostrabile e ineffabile, quindi
costante universale e anche orizzonte d'eventi;
per me, scacchiera.
L'anello mancante alla catena che non c'è, particolare, (1989), Sala Ottagonale della Fortezza da Basso, Firenze, 1989
LA - Quindi: se la perdita di un senso assiale di riferimento riguarda questi tempi, tale perdita è per te
una profezia, una traccia o un epifenomeno?
MB - Essendo dappertutto il Sacro, oggi, viene rinvenuto in tutti quei momenti in cui è evocato
volontariamente e, soprattutto, legato alla coscienza, alla consapevolezza in cui un atto è compiuto.
Il Sacro oggi è una
apertura verso, ma è perciò un chiaro rifiuto di ogni stasi.
Un
concettodi
sacro è poco funzionale all’arte, più che mai oggi, sia che il sacro nell’arte venga
richiesto, sia che venga evitato.
La perdita di un senso assiale è certamente una considerazione interessante, eppure non è che una
versione dei fatti, sulla mia scacchiera.
Quando lavorai ad una mia mia scultura, “la mongolfiera” nella Sala Ottagonale del San Gallo alla
Fortezza da Basso, a Firenze, mi accorsi che vi era una buca ottagonale corrispondente dal basso
alla chiave di volta della cupola lassù (punta l’indice e lo sguardo verso il soffitto), sulla cupola,
peraltro identica in proporzione a quella del Brunelleschi in Santa Maria Novella.
D’impulso pensai di riempire la buca ottagonale di liquido mercurio, e così feci.
Fatto sta che quella buca rispondeva geometricamente alla chiave di volta, alla cuspide della stanza,
a cui era connessa da un’asse geometrica; ebbene, guardando dentro alla pozza per guardare di
riflesso la cuspide, inevitabilmente, si guardava il proprio volto.
Trasposi questo elemento nell’installazione in modo che potessi guardare di riflesso nel mercurio la
cima della mongolfiera - che in questo caso chiamai “l’anello mancante” - ma non potessi vedere la
cuspide centrale della cupola.
Quindi potevo vedere l’apice di questa forma, ma non l’apice di ciò che conteneva questa forma,
mentre inevitabilmente, cercando quell’apice, ero costretto a contemplare il mio volto.
Mistica della forma (2009), veduta della mostra, České Muzeum Výtvarných Umění, Praga, 2009
LA - Quale è la connessione fra il sacro della tua arte e quello della tradizione?
MB - Oramai la distanza dalla tradizione è
stellare.
Ascoltavo un’intervista a Lucio Fontana, dove
innanzitutto considerava come nei tempi
antichi c’era una enorme quantità di persone
che lavorava nell’arte e attorno ad essa, mentre
oggi questo numero si è ristretto e le persone
che vi abitano si sono molto, molto
specializzate.
Verrebbe quindi da pensare che in qualche
modo l’arte, quell’arte, non sia più necessaria.
E con ciò si ritorna a quanto detto poco fa.
Quindi essendo che la creazione artistica, in
quanto evocazione di una tensione estetica, non
può che essere contagiosa, ciò ci porta a
interrogarci su quell’intreccio che era tutto
attorno all’arte in quanto motore di cultura e
civiltà.
Che dire della creazione di una bottega, oggi come allora, o della vitalità di una committenza colta?
Mi chiedo come tutto ciò possa tradursi oggi, o come noi possiamo determinare un mutamento
positivo nell’attuale tendenza.
Penso alla vulcanica creatività dei giovani artisti e su come questa possa trovare compimento, in
particolare nel momento in cui scoprano una loro sincera pulsione verso il sacro.
Una delle possibilità è concepire l’arte in tutto e in ogni gesto quotidiano, come disse Beuys, ma
anche questo va certamente considerato con cautela e nel senso preciso in cui Beuys produsse
questa considerazione.
Voglio citarti qualche frase dall’intervista di Fontana.
(Cerca fra le pagine di un libro)
“Non posso parlare del futuro. L'uomo camminerà sulla luna, su Marte. L'arte può finire . Non è
una necessità, malgrado tutto ciò che ci raccontano: mangiare, dormire sotto un tetto, proteggersi
dal freddo, sono cose importanti. L'arte serve sempre meno, rimpiazzata dagli ingegneri, dalla
macchina. Se vuole continuare deve evolvere, diventare più filosofica” (4).
Questo io feci e ho sempre fatto, ancora prima di avere letto quest’intervista a Fontana.
In un luogo selvaggio della pianura d’Olanda, feci volare una mongolfiera da un vasto terrapieno
appositamente preparato e che poteva essere solo visto dal guidatore e non dal pubblico che si
accalcava attorno all’accadimento.
Questo fu l’inizio di qualcosa che compresi solo dopo nella sua piena portata simbolica, riguardante
per esempio la visione dall’alto, come è - non a caso - nella visione pittorica dei pittori olandesi e
particolarmente in Vermeer.
Questo è un bisogno insopprimibile di staccarsi da terra. Ma la mongolfiera prende il volo perché si
affermi il significato simbolico dell’elemento aria, affinché questo sia scomposto chimicamente in
elementi gassosi come azoto, idrogeno e via così, come accadde con la chimica dei gas del chimico
Cavendish.
Ma nessuno avrebbe mai pensato – prima di allora – ad avere il bisogno di staccarsi da terra, ma ciò
è coincidente col momento in cui questo bisogno di vedere dall’alto cambia anche la nostra visione
di cosa sia l’aria. Questo è un passaggio cruciale dall’Alchimia alla Chimica, entrambe però
concepite nel loro riposto e fondante significato metafisico. Il risvolto pratico di questo passaggio fu
proprio l’idea di innalzarsi per guardare dall’alto.
La funzione solare dell’occhio rimase incorrotta, come un laser dall’alto poteva spaziare anche su
particolari fino ad allora non notati, e tuttavia la sfericità dell’ikonostasis bizantina fu persa; ma una
visione dall’alto iniziò ad affascinare l’uomo dandogli nuove prospettive.
Scrive della mia mongolfiera il critico d’arte Fulvio Salvadori (gli passo un articolo):
“In solitudine
l’occhio acquistava allora una effettiva solarità, e il potere di illuminare, dall’alto a suo
piacimento le cose”.
E ancora (legge da un testo):
“In effetti lo sguardo che sale si stacca da quelli della folla ancorata
al suolo e, sottraendosi al senso comune delle azioni, ne riconosce allora freddamente la
molteplicità e la simultaneità; ogni particolare che lo attragga viene allora isolato e può venire
considerato a parte.
Tuttavia ciò che era stato rimosso era stato, ancora una volta, celato. (si ferma e mi guarda)
Il volo
della mongolfiera avveniva nell’aria in una regione intermedia tra cielo e terra, sospinta verso
l’alto dal fuoco, e rendeva possibile lo scorrere dell’attenzione sul territorio: nel volo infatti la
vista restava soggetta al campo gravitazionale della terra, e non era rivolto di solito al cielo.
La teoria dei quattro elementi ha un’essenza metafisica e perciò non è legata alla storia e alle sue
vicende: indica in senso metaforico le coordinate di una visione interna dell’anima. L’innalzarsi
della mongolfiera aveva provocato una trasformazione di quelle coordinate, ma non le aveva
eliminate”.
Noli me tangere (1997). Casa del Pontormo, Empoli, 2013-2014.
LA - A riguardo dell’Alchimia – che hai evocato sovente nelle tue opere – quali sono i momenti
storici topici che tu hai vissuto nelle tue evocazioni alchemiche?
MB Innanzitutto devo fare due considerazioni parallele.
La prima è che, in tutta evidenza, l’Alchimia costituisce un tema ispirante la mia arte; peraltro io
nasco come chimico laureato, anche se questo fu solo un
appetizerrispetto al mio interesse
successivo.
Ma, soprattuto, la seconda è che da artista cosciente della funzione che ho nel mondo, posso ripetere
quello che disse Duchamp a Schwarz quando questi lo definì
alchimista: “se sono stato un
alchimista, questo è accaduto senza che io lo sapessi”.
Anche Elkins si è accorto della contiguità fra arte e alchimia ma anche della differenza di funzione
fra alchimista e artista. E forse grazie al linguaggio alchemico ci si può meglio avvicinare alla
parabola creativa di, che so, un pittore. Ne cito qualche riga (5):
“Tuttavia qualsiasi libro in proposito è destinato a fallire; Perché dovrebbe esplicitare molte cose
che gli artisti non dicono neanche a se stessi, e violerebbe drasticamente i confini fra l’esperienza
della pittura e il suo significato. Lo stesso dicasi per l’Alchimia in entrambi i casi l’atto
soggiacente è spirituale mentre il linguaggio della sua divulgazione è inconsistenze e debole”.
Ecco, vedi, è proprio questo il principio che si equivale nell’arte e nell’Alchimia, dove
l’esplicitazione viene meno. Ed ecco come mai il simbolo riesce a soccorrere così efficacemente e
ad esprimere questi misteri.
"Nell’esplicitare il significato spirituale in pittura, l’Alchimia ha il vantaggio rispetto alla teologia,
alla psicologia di Jung o alla critica d’arte, di essere una disciplina consorella.
Anche l’Alchimia è schiva, si cimenta sulle sostanze e lascia che si riempiano silenziosamente di
significati invece di dichiararne la presunta preziosità”.
Noli me tangere (1997-2017), Forte di Belvedere, Firenze, 2017
LA - Non è certo un caso che tu abbia operato in luoghi alchemici come Firenze e a Praga, dico bene?
MB - Sì, certo, e in quei luoghi mi sono più volte
espresso nelle esposizioni museali con simboli
legati all’alchimia, apprezzando il ruolo che
l’alchimia ebbe e ancora ha nella civiltà e nella
nostra storia. L’Italia palpita di alchimia e
anche a Parigi, come a Praga, si sente questo
legame molto forte e ancora vivo.
LA - La tua arte, che parte dal mondo culturale
europeo, sia dalla Grecia antica, che
dall’Oriente, e che attraversa l’Occidente
cristiano con una intuizione metafisica e anche
grazie alla visione ermetica che tu citi sovente,
che impatto e che funzione potrà avere
nell’arte e nella cultura anglosassone e, in particolare, americana, dove questa ricerca è meno
storicizzata e maturata nella cultura?
MB - Il fatto della storicizzazione – che si declina in
accadimenti – non ha molta rilevanza nella
possibilità che l’arte venga espressa appieno.
Credo che l’impatto dell’arte sia più sinceramente e veramente metafisico, che non avvenga in un
percorso storico; infatti quando cerchiamo cos’è l’origine della creazione – non della creatività che
è un fenomeno limitato – ci accorgiamo che per entrare in una possibile comprensione dell’origine
dell’universo si entra in uno spazio e in un tempo in cui le regole non sono più così “scontate”; e
così passando dalla fisica classica a quella quantistica, per concepire l’origine dell’universo finiamo
per concepire un buco nero, dove le regole cambiano del tutto e sembrano
impazzire.
L’America come luogo, come mito e come contenitore di culture altre e varie, l’America come
specificità in sé - dovuta proprio alla contenzione in un luogo di tali diversità - quando può
assumere un sincero interesse verso i propri fondamenti crea in quel momento una relazione con
l’arte e con la mia arte che ricerca l’origine. Del resto la meraviglia del rinascimento italiano ed
europeo aveva questo stesso principio di diversità e specificità rivoluzionaria che, al tempo, fece
una differenza, che continua anche oggi che la studiamo stupiti.
Ma l’unica, possibile approssimazione reale a questa intuizione rivoluzionaria, quindi, è
l’avvicinarci a questa domanda di fondo sull’origine, in qualunque modo venga chiesta, il che
cambierà a seconda dei tempi e delle culture.
Se andiamo indietro possiamo accorgerci di momenti topici nella storia - e solo di quelli che
conosciamo - dai quali riceviamo una grande ispirazione, per esempio l’Antica Grecia, la
Tradizione Egiziana, che entrambe furono uno spunto cruciale per l’ermetismo che ne seguì e per il
rinascimento fiorentino.
Voi, come alchimisti, sapente benissimo di cosa parlo, è il rapporto fra micro-cosmo e macrocosmo;
tutte queste sono diverse visioni epocali che rincorrono l’origine che certamente verrà
presagita dai più, intuita da molti e realizzata completamente da pochi individui.
Si sedes non is (2009), Spazio Thetis, Arsenale Novissimo, Venezia, 2009
LA - LA La frase “si sedes non is” l’hai presa dalla Porta Ermetica, giusto?
MB - Sì, volevamo dare un nome a un movimento
artistico e abbiamo voluto collegarci alla Porta
Ermetica di Roma. Peraltro ci trovavamo nelle
vicinanze di Piazza Vittorio dove è sita, e
simbolicamente volevamo creare una seduta
sott'acqua, sul fondo di una piscina. Fui ispirato
da un discorso di Ibn Arabi (6), Maestro Sufi
antico, e volli rappresentare in qualche modo la
posizione del corpo che lui ricostruì come
immagine evocativa di un dinamismo immobile:
quello di un uomo che si sta per alzare, mentre
sta salutando ed è in procinto di partire.
Ma ancora non si è alzato, eppure sta per farlo…
Ed è che l’intenzione è tutto per quanto sia
piccolo l’impulso al gesto del partire.
LA - Quando mettesti il mercurio nella buca della Fortezza da Basso, che va a rispecchiare la cima
della mongolfiera o il tuo volto, non hai considerato, invece, di mettervi uno specchio?
LA - La parabola che spesso tu proponi come opera d’arte, mi pare superare l’alchimia in quanto
disciplina o techné, andando addirittura sulla questione dell’identità, sull’Io Sono. Nel momento in
cui ci avviciniamo sempre più a uno specchio parabolico concavo, la nostra immagine vi viene
assorbita e vi scompare.
MB - La parabola, lo specchio concavo, mi ha travolto. All’inizio lo tenevo nel palmo della mano
notandone l’evocazione luminosa, era un contenitore di luce.
Ma poi, un giorno, soprattutto allargandone le dimensioni mi accorsi di altro; ne rimasi scioccato,
tramortito, quando l’immagine di tutto me stesso vi
scomparve dentro. Nel momento in cui l’occhio coincide
con il fuoco della curvatura della parabola in un solo
punto, l'immagine scompare e dal quel punto in poi ciò
che è riflesso capovolto risulta riflesso diritto e non più
rovesciato. Quel momento di passaggio è sconvolgente, è
come se con uno specchio concavo avessimo
un’illuminazione a portata di mano e riproducibile in ogni
istante, una sorta di meditazione portatile.
La circonferenza anche in questo mi pare magica,
paradossale, insostenibile:
Qui il centro scompare insieme all' immagine e la visione
lo accerchia! Forse che ibn Arabi – e Guenon che lo cita -
non abbiano ragione? E quindi – così - Ermete, i Padri
della Chiesa, ma anche Blaise Pascal.
LA - Quale è la connessione fra una sensibilità artistica e filosofica come la tua e la comprensione
della realtà derivante dall’esperienza alchemica?
MB Ho studiato all’Università il pensiero di Galileo
Galilei, ma l’ho fatto all’interno della filosofia della
scienza, mentre più niente riusciva a soddisfarmi
davvero. Anzi trovavo che la ricerca scientifica
sempre più portasse via dalla propria essenza
l’essere umano; io invece volevo realizzare il vero
senso di "techne", che in greco antico significa Arte,
con la tecnica, quando sorge come “sapere”.
Ma vedevo che nonostante ogni possibile scoperta
scientifica l’uomo rimaneva sempre uguale, non
importa quanto grandi fossero le implicazioni di ciò
che scopriva e vedeva. non cambiava dunque, così,
il materiale umano.
Allora mi sembrò – e ancora lo penso - che senza
abbandonare la cultura attuale, sulla base
dell’importanza che la scienza ha oggi, si possa con
l’arte, toccare questa essenza profonda dell’uomo. E
mia, ovviamente.
L’uomo con il suo ingegno libera i mondi del
proprio peso occupandosi, in realtà, soltanto d’una
piccola parte della dimensione totale dell’essere…
Ora, questa è la domanda che voglio porre: è
proprio attraverso quel mistero che è l’ingegno, in
ogni sua forma possibile, che l’uomo – un uomo -
può partecipare a una vero cambiamento della sua
struttura fisica e mentale?
Si sedes non is (1989-2017), Forte di Belvedere, Firenze, 2017
Note
1 Pontormo e Rosso a Firenze e in Toscana, a cura di Antonio Natali, 2014, Maschietto Editore.
2 Rene Guenon, Les principes du calcul infinitesimal, Paris, 1946.
3 Jorge Luis Borges, Otras Inquisiciones, Emece, Buenos Aires, 1960
4 Lucio Fontana, intervista pubblicata in " Art et Creation" N.1, janvier-fevrier 1968.
5 James Elkins, "What Painting Is ", Routledge, 1999 (traduzione Giorgio Camerino e Giuliana Hartsarich per
Mimesis Edizioni, 2012).
6 Uqlat Al-Mustawfiz, ossia il "Nodo del Sagace", opera di Ibn Arabi, detta anche al-Insan al-kamil ovvero " L'Uomo
Universale". Il nodo del sagace, traduzione di Carmela Crescenti, Mimesis, Milano, 2000.