Marco Mazzoni
What are you looking for?
di Luca Sposato
Per entrare in contatto con l’opera visiva di Marco Mazzoni, già affermato coreografo e performer, occorre tenere presente tre elementi fondamentali: l’opera, l’installazione e l’interazione.
Ogni parte vive una propria autonomia ed allo stesso tempo “invade” il campo semantico degli altri due elementi, in una sorta di sfumatura continua tra apparato scenico/espositivo e prodotto artistico istituito di propria fisicità. Partendo, dunque, da pura considerazione percettiva, lo schieramento di oggetti e cose accompagna la selezione di disegni disposti a parete di varie taglie e soggetto. La differenza che può sembrare evidente tra uno strumento/supporto creativo (come le forbici o il parapetto o le stesse cornici) e il segno espressivo (i disegni e la scelta di allestimento) viene meno quando si declina l’immagine delle cose trattate, il loro spettro cognitivo che attraversa la memoria dell’osservatore e ne attiva determinate reazioni. Capendo questo, tutta la sfera formale assume un compito attivo, ogni piccolo dettaglio ha la sua storia e casistica, dove Marco Mazzoni, più che autore in senso stretto, è l’alchimista di immagini e delle loro tracce. Si intuisce quanto sia il contesto a scaturire l’opera, poiché, la dialettica continua tra opera e installazione porta ad una sospensione spazio-temporale, legittimando tutti i componenti della mostra, fruitori compresi, a fenomeni esperienziali; data la massiccia presenza mass-mediale di ritagli di giornale e immagini seriali, anche il pubblico investe un ruolo attivo. L’oggetto come luogo è una peculiarità persistente.
Il riguardo all’archivio, inteso principalmente come processo, al “vizio” di Marco Mazzoni a ritagliare e conservare accuratamente immagini, carte, biglietti, dépliant, flight safety instructions, assume un’identità concreta e quasi plastica, addirittura “fuor di sé’” nel momento dell’atto, anziché venir rilegata a nozione o conoscenza, in quanto non ha un termine prefissato, vive nell’attività del ricercatore, ben conscio di come il fine sia sempre un gretto espediente che serve soprattutto a dare un futile senso.
Il corpo (dell’archivio, dell’artista) come atto dinamico è l’essenza dell’elemento installativo di questa mostra. Accumulare, memorizzare, è un processo creativo. La disposizione, risponde fondamentalmente alla necessità di una fisicità da esternare.
Ogni elemento è un layer, dunque, che si sovrappone agli altri e ne crea un terzo del tutto inatteso. Ad esempio il tappeto nella prima stanza, un insieme intrecciato a mano e quasi invisibile per il materiale usato, rivelato a poco a poco dal calpestio delle persone, nelle impronte delle scarpe. Pure alcuni disegni evidenziano l’idea di piani intrecciati, con i ritagli che rivelano il retro della cornice oppure leggere sfasature determinate da un gioco di trasparenze. Il Gioco, per l’appunto, è il terzo ed inevitabile elemento esplicante l’interazione. Il gioco come metafora dell’esistenza emerge magnificamente nella seconda stanza della mostra, allestita come uno spazio cavernoso illuminato da una lampadina incandescente dove un circolo di statuine di plastica, guerrieri primitivi, proiettano le loro ombre maestose sulle pareti. Del “giocattolo” non resta più nulla, solo una parvenza: tutto lo scenario è inghiottito da un intreccio semantico formato da memorie personali, di Marco, e memorie ancestrali che si risvegliano nella visione di ciascun fruitore.
L’analisi dimensionale è un ulteriore appunto di riflessione, ingannevole come l’arte stessa, vago ricordo delle origini leggendarie della nascita del disegno raccontate da Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia, quando la figlia del vasaio Butade Sicionio ricalcò l’ombra proiettata sul muro del suo amante per preservarne (o archiviarne, se si vuole) il ricordo. Grande e piccolo, piccolo e grande è una dinamica costante di tutta la mostra, una maniera di nobilitare i dettagli attraverso il gesto espressivo così come ribadire l’oggetto quotidiano o ludico come fenomeno estetico.
«Il gioco è innocente, dunque onnipotente» diceva Carmelo Bene.
Marco Mazzoni, What are you looking for?, veduta d'insieme della mostra, Spazio MOO, Prato
Artext Marco Mazzoni Luca Sposato
Dialogo
Artext - Nella tua recente mostra sembra che sia la Vita ad essere osservata nei suoi riflessi in un campione di scritture che scorrono tra le sponde opposte di un equilibrio funzionale (la quantità di esperienza elaborata) quanto nella sua operazione di ‘differenziazione.
Al centro il flusso nel quale si può nuotare ma che non si può controllare, ai lati i luoghi.
Puoi raccontare la creazione di concetti attraverso personaggi concettuali che ricava dalle opere per procedere a nuove composizioni di senso.
Quali le letture critiche o le filosofie che ti muovono.
Marco Mazzoni – Non ho riferimenti specifici riguardo il mio lavoro, anche se non posso negare che autori, filosofi, artisti come Roland Barthes, Arthur Danto, Michael Focault, Mario Mieli, Aby Warburg, Andy Warhol, Felix Gonzalez-Torres mi interessano molto e continuo a studiarli con costante interesse. Tuttavia, il mio lavoro non si fonda su riflessioni concettuali così precise e dirette, sono piuttosto le esperienze o la vita a guidarmi come emerge dai temi universali che continuamente faccio convivere quali vita, morte, desiderio, paura, sesso. Se poi sotto tortura dovessi fare un nome, la figura che ricorre maggiormente, per i trasversali livelli che ha messo in atto in tutto il suo percorso artistico e biografico in apparente semplicità, è Warhol. Credo che il suo fantasma lo si possa intravedere in molte cose che faccio.
I miei lavori nascono piuttosto da un’urgenza che quasi mai comprendo sul nascere, i disegni arrivano nei momenti più impensati, altre idee si fissano come appunti in attesa del momento giusto per essere concretizzati: a volte un lavoro è un desiderio fermo da anni, che al momento giusto ritorna nella mia testa e trova forma. È nel momento che realizzo una mostra che tutto si complica, che entra in campo il pensiero, il concetto, la messa in scena dove i singoli lavori diventano gli interpreti di un contesto più complesso.
Luca Sposato - Apprezzo molto la distinzione di Marco tra opera e progetto, considerazione che confluisce nel display della project room di MOO: quello che facciamo, io insieme a Luca Gambacorti e Manuela Menici, nello spazio di via San Giorgio è proprio cercare di proporre gli oggetti come fenomeni estetici. Il modus operandi di Marco, ovvero concepire una mostra come un momento interagente e l’opera come innesco di quel momento, coincide felicemente con l’obiettivo curatoriale.
Marco Mazzoni, Boxes; Scissors; Llight safety cards; Atlas, 1990 – 2010; Drawings, 1990 - 2023, Spazio MOO, Prato
MM - What are you looking for? Nasce in risposta ad alcune sollecitazione dei curatori. Fin dall’inizio sapevo che non avrei mostrato in maniera evidente il soggetto della richiesta, per farlo, al contrario, ho sviluppato un discorso parallelo grazie ad una serie di lavori molto diversi tra loro, capaci di ridefinire un ambiente e al contempo di presentare digressioni e sconfinamenti fra opera e contesto. Una sorta di trappola, dove le richieste curatoriali entrano in campo da una porta secondaria e in cui il fruitore è chiamato, attraverso un atto di sovversione, a scovare in totale autonomia il nucleo generativo della mostra.
Anche il titolo si muove sullo stesso piano: What are you looking for? / Cosa stai cercando? una domanda aperta, che pongo agli altri ma anche a me stesso, e che assolve il ruolo di suggerimento ed insieme di opera.
Marco Mazzoni, What are you looking for?, Atlas (face). 1990-2010, Spazio MOO, Prato
LS - Ecco, probabilmente non abbiamo mai parlato di cronologie, ma ora mi piacerebbe conoscere in quale momento del tuo percorso è nata la tua esigenza a manifestare l’opera.
MM – La mia produzione artistica risale agli anni Ottanta ma per molti anni non ho sentito l’esigenza di condividere, erano piuttosto emanazioni di un pensiero alla ricerca di una forma, montagne di materiale che ho conservato gelosamente. L’esigenza autoriale si è poi manifestata più esplicitamente con Kinkaleri, anche se collettivamente e in maniera più complessa: un fare arte dove la soggettività di ogni membro è sempre stata subordinata ai progetti sviluppati, un esercizio dialettico sulle possibilità molto prolifico, che ha messo in discussione autorialità e i suoi significati più intrinsechi.
Nel 2013 con il progetto di fanzine mazoopub ho sentito che era arrivato il momento giusto per esporre dei lavori che avevo accumulato negli anni. Ho cominciato a pubblicare regolarmente una serie di disegni e collage restituiti in forma di fotocopia, un formato che proprio per la sua semplicità mi corrispondeva e mi ha aiutato a comprendere il percorso avevo compiuto fino a quel momento, aprendo al contempo nuove possibilità. Ora nella mia pratica artistica riprendo anche lavori inizialmente non esposti. Nel caso della mostra a Moo, nelle scatole, fra gli atlas ho deciso inserire mimeticamente una serie polaroid realizzate negli anni Novanta, che ritengo essere l'essenza della mia ricerca, una connessione diretta fra passato e presente.
LS - La spontaneità, che molti artisti perseguono come un’ambizione, non è affatto scontata: in un mondo e in particolare nell’ambiente artistico dove regnano sovrane le immagini, che ti fagocitano anche nelle più intime intenzioni, essere fedeli a sé stessi è una forma di resistenza. Francamente, penso che tutto quello che hai fatto e fai è figlio di una volontà, di una libera interpretazione.
Marco Mazzoni, Untitled, (double), 2020 – enciclopedia e cane in peltro (collezione personale), Spazio MOO, Prato
AT - Prendendo le mosse dalla concezione tradizionale di arte come opera/oggetto, quanto c'è del ‘gesto performativo’ nella tua arte per comprenderla e relazionarsi positivamente ad essa; permettere al visitatore di fruirne, cioè, in modo soddisfacente?
L'accumulo e l'archivio le stratificazioni, c’è bisogno di una idea, seppur generale, di cosa l’arte sia o implichi. Quali le mostre e gli artisti, i movimenti artistici che sono condizionali al tuo formalizzare in arte?
MM – Qualsiasi cosa faccia impiego il corpo, ogni pensiero è corpo, nei disegni, in quel tipo di tratto, c’è dinamica e corpo, i tappeti, le pareti, sono anch’essi l’evidenza di un fare fisico. I dettagli imprecisi che costellano tutti i miei manufatti nascondono fra le pieghe la volontà di mostrare la manualità, il lavoro fisico, apparentemente meccanico, vuoi ossessivo. Probabilmente è una propensione che deriva dalla mia formazione di performer e coreografo. Mi viene in mente, ad esempio, in the same manner as the metrices, 2010, una sorta di arazzo di 13x9,30 mt., il cui soggetto era l’ingrandimento di un piccolo disegno trasformato in pixel. Ho realizzato il pezzo in una settimana, tagliando a mano 1372 pezzi di tessuto TNT di 32x32cm successivamente cuciti insieme: un lavoro enorme, maniacale, esposto solo per poche ore, esattamente come quando si presenta uno spettacolo.
Marco Mazzoni, Untitled(fencing mesh), 2023, Untitled (face), 2024, Spazio MOO, Prato
LS - Nel tuo fare si tratta forse di gestire una volontà ma tu non hai autorità di quello che poi diventa il fenomeno artistico e quindi l'oggetto artistico ed il suo progetto…
MM - Non ho autorità, è vero... o forse si, nel senso che le scelte che faccio, non necessariamente devono collimare con quello che un pubblico potrebbe vedere. Rifletto molto su cosa e come mostrare talvolta non rendendolo palese, ma giocando con l’idea stessa di visione, Per esempio, in questa mostra, molti dei disegni dentro le cartelle nelle scatole di cartone, a cui il pubblico può volendo accedere, non sono “disegni buoni”, che appenderei al muro come opera, eppure come catalogo e archivio sono estremamente funzionali al discorso più amplio della mostra. Dare la possibilità di vederli nel loro essere “non riusciti” è più importante per me che mostrarli come “riusciti”, il loro contesto è il soggetto e non viceversa. So anche che per qualcuno questo potrebbe essere forviante, ma mostrarli come possibili disegni non riusciti è esattamente il lavoro concettuale che sto proponendo.
AT - Quale lo sguardo che ritieni necessario a questa mostra?
MM – Mi piace pensare ad uno sguardo emotivo che attraversa vari stati: concettuale, intimo, teatrale…
Mi piacerebbe che si guardasse alle cose con più libertà e non ci si sentisse intimoriti dall’idea di non comprendere quello che si vede.
Marco Mazzoni, What are you looking for?, Untitled (down), 2023, Spazio MOO, Prato
AT - C'è un movimento che ha attraversato epoche e personaggi dell'arte, Fluxus di cui John Cage è considerato il nume tutelare e in relazione a Merce Cunnigham.
Arte e Vita, uno spazio dove mondo dell’arte e mondo della vita si fondono e confondono.
Là dove si considera il gesto e la performance art un atto creativo in relazione soltanto a sé stesso.
Puoi raccontare del tuo soggiorno a NY alla scuola di Merce Cunnigham?
MM – Merce Cunningham è stato per molto tempo solo il nome di un coreografo che incrociavo spesso quando studiavo artisti come Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Andy Warhol o Bruce Nauman. Poi nel 1988 durante un soggiorno alla Stanford University, in California, mi capitò di frequentare dei corsi di danza tenuti da Diane Franck, una ex-danzatrice della compagnia. Ne rimasi folgorato: era una tecnica che partiva dalla struttura del balletto classico, che già stavo studiando, aprendola a tante altre potenzialità motorie e formali. Decisi di trasferirmi a New York l’anno successivo per studiare in maniera più approfondita nella sua scuola. Sono rimasto al Cunningham Studio quasi quattro anni, seguendo un programma di formazione professionale. I corsi erano tenuti da insegnanti diversi, membri o ex della compagnia o dallo stesso Cunningham, che insegnavano tutti la stessa tecnica ma con qualità diverse: l’evidenza delle possibilità nell’applicazione di un principio e non il tentativo di trasformarti in un clone. É stato un bell’insegnamento che ha influito su tutta la mia carriera. A New York, sono anche entrato in contatto con altre realtà che hanno influenzato la mia formazione: i lunedì di contact improvisation al PS 122, le performance organizzate da Movement Research al Judson Church, o gli eventi al Dance Project…
AT - Questo nella grande libertà dell'agire.
MM – Beh si, svincolato da tutto e tutti, libero di abbracciare qualsiasi cosa volessi, essere quello che volevo essere, dove ogni cosa sembrava a portata di mano. New York è stata arte, sesso, libertà, orgoglio e indipendenza, un momento di crescita incredibile.
Marco Mazzoni, Open your heart, c. 2004; Im schlaf #04, 2015; Im schlaf #02, 2015, Spazio MOO, Prato
AT - L'equazione arte vita che crea ancora delle corrispondenze.
MM – Non riesco a scinderle, ho fatto sempre questo, filosoficamente e formalmente, anche un disegno è un atto performativo personale che si concretizza in tratto.
La prima stanza, la più clinica, funziona quasi come luogo scientifico. Dislocati nello spazio una serie di elementi di diversa natura; alcuni grandi disegni incorniciati, una tappeto, un paravento, un’enciclopedia, tutti elementi che portano lo spettatore ad interrogarsi su cosa osservare, ogni cosa è posizionata sul pavimento in modo da innescare immediatamente una direzione di sguardo, che verge su alcune scatole collocate dietro il paravento. Le scatole, nel suo assemblaggio funzionano sia come forma scultorea che di contenuto, ogni scatola contiene una serie di accumuli, che lo spettatore, può decidere di consultare ma solo assumendosi la responsabilità di farlo.
Il piccolo corridoio che connette le due stanze è luogo più intimo, silenzioso e sospeso.
E poi il teatro
Marco Mazzoni, What are you looking for?, Take no prisones, 2019, Spazio MOO, Prato
AT - In una delle stanze della mostra hai attivato un meccanismo di proiezioni, un diorama semplice e ridondante allo stesso tempo che rimanda al teatro piuttosto che all'arte.
MM - É il lavoro che conclude il percorso espositivo e che si completa con la presenza stessa del pubblico che lo espande. Take no prisoners, è composto da 6 soldatini “primitivi” di plastica di 14cm di altezza in assetto di guerra, posizionati in cerchio intorno ad una lampadina accesa, che proietta le ombre dei guerrieri sulle pareti antistanti a grandezza naturale. Il visitatore entrando nella stanza, nel solo avvicinarsi ad osservare l’opera entra nel fascio di luce divenendo egli stesso ombra che si staglia sulle pareti, mischiandosi alle altre ombre. Una modalità funzionale a chiudere un cerchio, dalla forma al corpo attraverso un gioco di stratificazioni.
LS - C'è stata quasi una trasformazione materica: nella stanza oscurata, quasi tutti i visitatori erano convinti che i modellini a terra fossero in bronzo, probabilmente suggestionati dal colore, ed sono riusciti con la mente a trasfigurare la cosa in se. Nell'insieme è difficile separare la propria presenza dall'esser dentro l'opera, ma a poco a poco avviene una piccola epifania, e gli osservatori colgono la propria ombra dialogare con quella dei
guerrieri.
Marco Mazzoni, What are you looking for?, Take no prisones (detail), 2019, Spazio MOO, Prato
AT - Si tratta di mettere in campo delle energie, ed è qualcosa che avviene con il teatro, quasi un transfert di elementi primitivi, una battuta di caccia, la guerra.
MM – É un lavoro del 2019, lo avevo pensato per una mostra on-line, nasceva per un implicazione visiva. Mentre nella mostra di Prato non si tratta solo d’immagine, ma anche del suo meccanismo d’inclusione che ne amplia le percezione, da immagine a corpo.
Marco Mazzoni, What are you looking for?, Angry monkie, 2024, Spazio MOO, Prato
AT - Mettere in discussione i modi di produzione e circuitazione artistica - è questo che la sfida di Jérôme Bel che ti vede protagonista - è di non far più viaggiare gli spettacoli ma le idee che ne sono alla base, affidando ad altri artisti un riallestimento ogni volta diverso, di città in città. Puoi raccontare di questo incontro?
MM - Conosco Jérôme Bel e il suo lavoro dalla fine degli anni Novanta, apparteniamo alla stessa generazione di artisti che hanno sviluppato delle riflessioni sullo stato della scena, frequentando gli stessi festival europei. Negli anni con Kinkaleri abbiamo programmato il suo lavoro in diverse occasioni, nel 2002, Nom donné par l'auteur al Teatro Studio di Scandicci e nel 2015, Cédric Andrieux a Prato in una tappa di Body To Be.
Un anno fa mi sono imbattuto in un suo annuncio che lanciava la possibilità di poter mettere in scena uno dei suoi ultimi ritratti, Jérôme Bel, quello dedicato a sé stesso. Incuriosito, gli ho scritto, ed è nata l’idea di presentarlo a Firenze.
Il suo lavoro m’interessa sotto tanti punti di vista, quello concettuale, radicale ma anche molto popolare, sono incuriosito dalla semplificazione del linguaggio che usa per temi molto complessi e per l’efficacia di alcune applicazioni e entrarci in dialettica per la messa in scena della performance mi ha permesso di misurarmi su questioni come autorialità e interpretazione. Il lavoro si muove su una drammaturgia molto precisa, ma allo stesso tempo aperta a possibili variazioni, a cui ho risposto lavorato sui tempi e l’aggiunta di alcune scene, in un dialogo aperto che non ne minasse l’identità.
Ultimamente ho preso parte anche al lavoro di Giuseppe Vincent Giampino, in questo caso mettendomi in relazione come interprete. Questa cosa mi sta incuriosendo molto, mi sembra quasi di ritornare bambino, in una sorta di alleggerimento creativo. Dove io non sono più soggetto diretto ma un tramite, per quello che sono e con la mia esperienza, per discorsi altrui.
LS - A questo mi riferivo prima parlando di autorità, si tratta di mettersi in relazione "ad personam". Non mi sembra che tu prema la tua presenza autoriale, questo non perché il tuo io sia vanificato, è presente sicuramente ed importante nella soggettività delle scelte, però è come fosse in qualche modo sintetizzato negli altri, diffuso.
Marco Mazzoni, coreografo, performer e artista visivo, si è formato nelle arti performative a Firenze e a New York presso il Merce Cunningham Studio. Nel 1995 fonda a Firenze Kinkaleri, con cui tuttora lavora e co-dirige, formazione artistica che si occupa di arti della scena, con cui ha realizzato oltre 60 produzioni tra creazioni per la scena e progetti dalla natura interdisciplinare e dinamica. Parallelamente al lavoro con il gruppo, ha sviluppato una propria ricerca nelle arti visive, creando un corpus di lavori che include disegno, fotografia, editoria e performance. Nel 2013 fonda mazoopub, progetto editoriale indipendente che pubblica fanzine periodiche. Ha collaborato con artisti di vari ambiti tra cui Lovett/Codagnone, Giulia Cenci, Zapruder, Jacopo Miliani, Jérôme Be; e in collaborazione con Kinkaleri con John Giorno, Invernomuto, Canedicoda, Jacopo Benassi.
(fonte, mazoopub.tumblr.com )
MOO / LATO
Marco Mazzoni
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