One look is worth ten thousand words
Un dialogo
Artext - Di recente è stato pubblicato
One look is worth ten thousand words, un libro per immagini, un libro che presenta una cronaca, un diario di un lungo viaggio, di un lungo soggiorno negli Stati Uniti. Puoi parlare di questo libro d’Artista..
Marco Mazzoni -
One look is worth ten thousand words raccoglie una serie di immagini fotografiche scattate durante il mio soggiorno a New York dal 1989 al 1994, ma non si tratta di un libro che vuole raccontare la mia storia, la mia esperienza è presa in prestito per elaborare un discorso sul linguaggio e sulle sue implicazioni estetiche, una riflessione sulla possibilità di guardare al mondo attraverso ciò che si ha più vicino.
Artext - Il libro fa parte del progetto editoriale SelfPleasurePublishing che nasce da un’ispirazione di Jacopo Miliani. Come è nata questa collaborazione?
MM - È nata da una proposta di Jacopo. Una sera a casa mia, parlando di collezioni fotografiche gli ho mostrato alcuni album dove tengo queste foto, da lì ne è scaturita l’idea di farne un libro. La maggior parte delle foto di New York sono nate nello spirito della documentazione, e malgrado sapessi che un giorno avrei potuto usarle, non mi ero mai soffermato a pensare al come, così quando è arrivato l’invito di Jacopo per farne una pubblicazione dopo il primo slancio positivo, mi sono bloccato, ci sono voluti quasi due anni prima di decidere di realizzarla.
Artext - Da cosa trova ispirazione o meglio la cronaca contenuta in questo libro trova l’occasione nel tuo soggiorno a NY mentre studiavi nella classe di Merce Cunningham..?
MM - I materiali fotografici non sono la documentazione dei miei studi con Cunningham, hanno più a vedere con la mia esperienza di quel periodo, gli scatti dei primi anni sono perlopiù foto ricordo, le foto come diario - più strutturate - hanno preso corpo successivamente, ma senza troppo pensiero o progetto definito e l’evoluzione formale avvenuta la sento più come lo specchio della mia trasformazione.
Artext - Ritrovi ancora oggi un’influenza inevitabile di tutta una estetica di quegli anni, della fine degli anni ottanta e i primi anni novanta Newyorchese, in una qualità performativa o un qualche modo aleatorio di ricollegare l'arte alla vita?
MM - Certe esperienze ti segnano profondamente, sono stati anni fondamentali per la mia formazione, ma c’è da dire che andare a New York non è stata una scelta casuale, l’ho voluta fortemente, attratto da una serie di movimenti artistici e culturali che stavano avvenendo in quella parte del mondo. È naturale che ancora oggi trovo tracce di quell’esperienza nelle cose che faccio, ma non per aderenza romantica o malinconica, semplicemente perché mi corrispondono nel profondo.
Artext - Quindi accanto a questo, a questa attenzione del tuo corpo come medium c’è una tua volontà, un’ispirazione a muoverti nei territori di rappresentazione visiva, - come hai sviluppato in seguito la dimensione creativa del disegno e nelle pratiche di Reenactment?
MM - Il mio interesse per le immagini viene da lontano, dai primi album di figurine
panini che collezionavo da piccolo fino ai ritagli e ai successivi
atlas, le immagini mi affascinano da sempre, forse perché come il movimento sono più interpretabili e meno chiuse. La maggior parte dei miei disegni scaturisce da una fotografia, attraverso i disegni tento di coglierne l’essenza, individuando le linee di forza. Reenactment??? per me questo libro non è ascrivibile ad una pratica di reenactment, esplora piuttosto quella via parallela tutta scritta sulla superficie dell’immagine, contiene un tempo passato ma è fortemente ancorata al presente, non intendo riazionare il tempo che è stato, semmai mostrare una forma presente in un modo di parlare per immagini.
Artext - Cosa caratterizza di più il tuo racconto, la narrativa scelta con il visuale?
MM - In
One look ci sono vari percorsi, che seguono la loro strada e a volte s’incrociano, il loro montaggio è determinante, la successione non segue un andamento cronologico, ma cerca di ricreare lo spirito di quell'esperienza e non la sua cronostoria. Nessuna didascalia, gli scatti sono mostrati per quello che sono e non come illustrazioni di un accadimento, hanno piuttosto un valore linguistico nel loro insieme.
Artext - Come hai deciso di fare questo libro?
MM - Intanto cercando di limitare i miei autoscatti, che erano moltissimi. Negli autoscatti non c’è edonismo fine a se stesso, svelano piuttosto la mia determinazione, sono testimonianze di una presenza, come i ritratti dei miei amici. Mi spaventava l’idea che potessero essere interpretati come una forma di autocompiacimento - questo è stato uno degli elementi che mi ha bloccato maggiormente - ma quando mi è stato chiaro che il trattamento che avevo fatto con me stesso era lo stesso che avevo attuato con il resto delle foto, mi è sembrato tutto un po’ meno rischioso. Di certo non temo di mettermi a nudo o di mostrare aspetti della mia vita privata.
Artext - Nel secolo passato la pratica quotidiana della fotografia intima e personale teneva a raccogliere e riproporre alla propria sensibilità situazioni personali, cioè rivolte a quei fatti o a quegli eventi che si ritengono degni di essere mantenuti per potere essere esibiti nella comunità sociale.
Come ne hai preso atto e poi come si è evoluta questa consapevolezza?
MM - Ho avuto molti riferimenti, in quegli anni molti artisti usavano la fotografia intima come mezzo espressivo e conoscere ed apprezzare certi percorsi mi ha aiutato a comprendere e sviluppare una certa sensibilità, ma quello che principalmente a me interessava era fissare alcune cose che mi riguardavano personalmente e intimamente, non stavo cercando di definire un mio linguaggio, rincorrevo piuttosto la forma che mi piaceva con estrema libertà ed a volte anche con una certa dose d’ingenuità, a cui riconosco adesso anche un certo valore. Questo materiale è forse il primo abbozzo di quella che poi negli anni è diventata - forse – la mia estetica.
Artext - Sono tutti scatti fatti con delle macchine molto semplici e quindi non hanno una grande qualità, a favorire forse l'aggancio esplicito e diretto del sistema analogico con le pratiche artistiche derivate dal ready made duchampiano.
MM - Duchamp lo consumavo sui libri e nei musei ma non pensavo a lui quando facevo le fotografie, certo è vero che l’idea della trasformazione è sempre stata un nodo centrale della mia ricerca, lavorare con materiali semplici e poco sofisticati per elevarli a qualcosa di più alto e poetico, quasi un’idea alchemica, partire dal basso per arrivare in alto, forse è proprio questo l’elemento duchampiano che potrebbero contenere.
Artext - Oggi è completamente diverso il modo in cui si fanno fotografie si raccolgono immagini, e si pubblicano, e si promuove un'identità iconica, la cui estetica esiste solo per la rete.
MM - La prima differenza che noto è la velocità con cui si producono e si divulgano immagini. Una volta, se volevi usare la fotografia come mezzo espressivo, dovevi organizzarti. Possedere una macchina fotografica era una scelta precisa e per raggiungere certi risultati dovevi studiare e applicarti. Oggi anche chi non è interessato alla fotografia fa foto e il risultato, grazie ai mezzi di cui disponiamo, è tecnicamente elevato, nonché iconicamente rilevante, grazie ai social. Quindi anche quando una foto non è il risultato di scelte ponderate e puntuali può essere ugualmente potente, nel bene e nel male.
Artext - Cosa ritrovi dell’insegnamento di Marce Cunningham in questo libro.
La percezione di un corpo mosso in modo inedito, la decentralizzazione del movimento e, nel gesto e dal movimento la necessità di esplorarlo nello spazio?
MM - Da Cunningham ho imparato la libertà con cui si possono fare le scelte. Le possibilità infinite del movimento, che ho appreso studiando da lui, sono elementi che ritrovo costantemente nel mio lavoro di creazione. È possibile dare corpo e senso anche a qualcosa che scaturisce dal caso o da un errore.
Artext - “La danza è per la maggior parte profondamente collegata ad ogni singolo istante del suo fluire”. Questo continuum spazio temporale in analogia scorre e poi si focalizza sull’idea di linguaggio e le miriadi di soluzioni che hanno le transizioni, o i possibili, scenari di crearsi e scomporsi
MM - La danza la trovo ovunque, anche quando al mattino mi alzo per prepararmi una tazza di caffè. In quel tragitto dal letto alla cucina, ripetitivo e metodico, ritrovo le stesse modalità di una lezione di danza, che mi darà, come il caffè, l’energia per affrontare la giornata. Nel libro le immagini, sebbene statiche sono montate dinamicamente. Ecco, la dinamica è forse l’essenza che più corrisponde a tutto quello che mi riguarda: performance, disegni o foto che siano.
Artext - Negli stessi anni della tua permanenza, Merce Cunningham metteva a punto un software per la creazione e notazione dei movimenti di danza. Questa tensione è forse passata anche nel tuo lavoro di notazione del gesto equiparando temi alfabetici ad azioni e gesti...
MM - Mi ricordo molto bene la coreografia sviluppata con il computer, la tecnologia di per sé non mi ha mai intrigato, sono decisamente un tipo più analogico. Tra il codiceK sviluppato con Kinkaleri e certe pratiche compositive di Cunningham, non c’è una relazione diretta ma certamente conoscere quei percorsi mi ha permesso di sviluppare pratiche e pensieri in qualche modo affini.
Artext - Qual è il tuo sentimento rispetto a tutto questo, rispetto alla tua vita di trent'anni fa, a questo lavoro che emerge adesso.
MM - Riguardo tutto con molta tenerezza ma anche con un certo distacco, mi riconosco in tutto quello che ho fatto ma senza nostalgia, mi sento ancora in piena espansione e il passato è come se fosse un bellissimo presente.
Artext - Chiaramente è un libro di ricordi ma ha una propria specificità, ha un corpo che non è quello tuo, è il corpo del libro, ed è un altro tipo di corpo.
MM - Infatti non è un libro di ricordi, le immagini, svuotate da ogni possibile didascalia, sono aperte a molte interpretazioni; il libro dispiega un’avventura corposa, concreta, misteriosa e consistente come il peso delle sue 514 pagine.
Artext - C’è un pezzo di questo libro che è l’esito della conversazione, del lungo lavoro tra te e Jacopo, è un testo che apre il volume. Nel lungo testo di Jacopo scritto in Inglese c’è qualcosa che colpisce, sul fatto che la prima immagine che apre il libro quella con le Torri Gemelle è uno skyline famosissimo, ed è tuttora famoso ma di fatto non esiste più, però poi Jacopo continua e riflette e dice, ma niente di tutto quello che è in questo libro non esiste più. Sembra questo il dato fondante, ontologico della fotografia, di tutto ciò che, 'E' stato', sebbene riprodotto all'infinito, non potrà ripetersi esistenzialmente...
MM - Tutte le immagini raccontano qualcosa che non esiste, sono sempre e comunque una porzione di un qualcosa, un frammento di una complessità che è impossibile documentare nella sua interezza.
Artext - E poi c’è l’idea del tempo. Trovi il modo di considerare il tempo come un diverso tipo di linguaggio?
MM - Nel libro si trovano diverse tipologie di tempo: il tempo passato, il tempo trascorso, il tempo presente e il tempo storico-culturale. Il tempo è linguaggio e come ogni linguaggio propone un’organizzazione di quello che ci circonda e dei suoi elementi attraverso uno svolgimento drammaturgico che ne determina il significato.
Artext - E quindi non è un libro assolutamente che fa documentazione, parla anche della NY di venticinque anni fa, ma parla anche di adesso, come guardiamo quella NY là, e come guardiamo…e di come oggi la rappresentiamo.
MM - Si potrebbe dire che è lo specchio di quello che siamo, ma non è un’indagine premeditata, è semplicemente qualcosa che è accaduto, vogliamo tutti vivere nella rappresentazione di un qualcosa che tendiamo ad idealizzare.
Artext - Forse non è solo un libro di foto, ma è un libro di scrittura, anche il titolo si riconnette con questa opposizione, la parola allo sguardo, quasi come una domanda.
Il titolo, Uno sguardo vale ben più di diecimila parole, da dove arriva?
MM - Arriva da una frase di un biglietto trovato in un biscotto della fortuna cinese, che avevo conservato attaccandolo su uno dei miei quaderni di appunti degli anni di New York, così quando abbiamo iniziato a pensare ad un titolo mi è tornata in mente questa frase che sembrava perfetta per la pubblicazione che stavamo realizzando; un libro di foto che parla di scrittura.
Artext - Tutte le foto sono stampate in bianco e nero, lo sono anche gli originali?
MM - Gli originali sono sia a colori che in bianco e nero, - realizzati con diverse tipologie di macchina fotografica, per le foto a colori sono state utilizzate delle usa e getta Kodak o Fujicolor con pellicole in 35mm e formato110, per il bianco e nero è stata usata un Olympus automatica in 35 mm - ma per una scelta estetica è stato convertito tutto in bianco e nero.
Artext - Quali le ragioni e la scelta di scannerizzare le foto già stampate e quindi con tutto quello che poteva essere riprodotto in termini di perdita di definizione, di contrasto, di grafica..
MM - Scannerizzare le stampe originali, compresi i graffi, è stato un modo per dare corpo all’immagine bidimensionale ed allontanarsi dall'idea di fotografia, sottolineandone la bassa definizione e il valore documentativo.
Artext - Utilizzi la foto come medium per tutto quello che ti accade, e questo riuscire a unire un dato fortemente autobiografico, personale, veramente intimo con qualcosa che poi rimetti in circolazione in questo modo e diventa collezione di immagini con una narrazione.
Che parentela c’è tra queste foto e te oggi..
MM - Una parentela molto diretta, continuo a documentare la mia vita attraverso quello che mi accade, oggi in una forma un po’ più articolata e meno lineare, avendo negli anni, sperimentato percorsi molto diversi, ora sento di avere un maggiore controllo su quello che faccio, un esempio potrebbe essere il mio account marcomazoo su Instagram dove, nella totale libertà e leggerezza, ritrovo lo stesso divertimento e urgenza di trenta anni fa.