Chiara Mu
Arte Relazionale ai tempi del Covid (Novembre 2020)
In una situazione contingente e grave come quella attuale (covid-19) in cui la prossimità, il contatto fisico e quindi la dimensione sensoriale della relazionalità nella vita quotidiana (e ancor di più nella performance art) vengono meno, mi trovo nella posizione di osservare i miei obiettivi di ricerca e pratica artistica come la fluorescenza improvvisa delle lucciole al buio: scorgo il disegno interno dell’insetto e la sua traiettoria ma, nel tendere la mano verso la luce intermittente, quel movimento è già svanito.
Il vuoto di possibilità con cui mi confronto al momento riguarda un processo di studio e sperimentazione iniziato con la mostra
Listen To Me (Macro Asilo, Roma, Gennaio 2019) e che si sarebbe dovuta ampliare con ulteriori progetti, in programma per gli anni 2020/2021.
La performance collettiva che ho portato al Museo Macro ha visto 5 performers cieche dalla nascita realizzare azioni individuali per un visitatore alla volta; ogni movimento da loro elaborato proveniva dal laboratorio di training che ho condotto al museo al fine di investigare l’immaginario di chi – sulla carta – non conosce immagine ma possiede intense immaginazioni e abbiamo trasformato insieme questo intenso bagaglio in un linguaggio simbolico ma al contempo corporeo.
L’intento del progetto era quello di permettere al visitatore un ascolto tattile, di farsi muovere dalle mani e dal corpo di una performer cieca e, grazie a questo affidarsi, di vivere l’opera: rispettare il silenzio imposto e permettere al mutuo scambio fatto di corpi, insieme intimi ed alieni, di incontrarsi ed accogliersi nella penombra, guadagnando un centro grazie al contatto con l’altro, guadagnando un abbandono e dunque un reale e profondo ascolto del sé.
Listen To Me mi ha portato ad investigare in modo più approfondito le dinamiche processuali; come creare un movimento a partire da una storia, da una individualità e farlo diventare un veicolo per altri corpi ed altri transfer emozionali, centrandomi ancora di più sulla necessità di esplorare in profondità l’ontologia della performance.
Nel contesto di interventi site-specific che mi hanno permesso di coinvolgere spazio, tempo e corpi dal 2003, ho inteso ed intendo gran parte del mio lavoro come un intervento estetico che mira ad investigare le interazioni tra artista e visitatore e/o tra visitatore e spazio all’interno dell’opera. Negli anni ho progressivamente focalizzato la mia ricerca sulle dinamiche di scambio e di mutua esposizione del sé che rivelano cosa ritengo interessante della dimensione performativa: uno spazio in cui la messa in discussione di chi agisce e di chi partecipa è costante ed in cui è possibile sperimentare una relazionalità orizzontale, fatta di attenzione e scoperta dell’altra-altro da sè. Mi assumo dunque la responsabilità etica di chiedere ai miei visitatori-partecipanti un coinvolgimento fisico ed emozionale diretto in relazione a ciò di cui tratto e che diventa a volte profondamente intimo e/o conflittuale, non solo per cosa propongo ma perché chi decide di viverlo con me ha lo spazio reale per rispondere ai miei input, antagonizzare, abbracciarmi, andare via, scrivermi dopo e anche per prendersi le mie reazioni, costruendo un dialogo che è sempre unico e personale tra noi.
Chiara Mu & Paolo Martore (a cura di) – Performance Art, Castelvecchi, Roma 2018 (part. copertina)
L’attitudine alla cura che tutto questo comporta è per me un atto politico radicale, con cui produrre soggettività ed esperienza estetica attraverso il riconoscere all’altra-altro la possibilità di esprimere diversità. L’opera a cui tendo è dunque il prodotto trasformativo di queste forze e che per me non esisterebbe altrimenti, liberando inoltre la dimensione performativa dall’erogazione di un servizio che intrattiene e asseconda solo perché i visitatori pagano il biglietto di una mostra o perché si veicola implicitamente il brand di un museo. Avere cura di costruire spazi di trasformazione e crescita nel rispetto del
dissensus - come direbbe Ranciere – chiaramente non corrisponde ad erogare customer care.
Riflettere su questi aspetti è diventato il fulcro consapevole del mio lavoro da quando ho ideato e curato un libro di fonti sulla Performance Art per il pubblico italiano (
Performance Art: Traiettorie ed Esperienze Internazionali, a cura di Chiara Mu e Paolo Martore, Castelvecchi editore 2018), nato a seguito delle mie esperienze di insegnamento e laboratorio con studenti delle accademie d’arte in Italia.
Oltre a permettermi una riflessione più complessa sul medium a partire da autori ed artisti -ancora mai tradotti in Italia - che avevo studiato nel mio periodo formativo al Chelsea College (Master in Fine Art, Londra, 2006-2009), la produzione di questo libro mi ha aiutato a riflettere su alcune modalità delle pratiche site-specific.
La comprensione e restituzione di spazi e dinamiche relazionali in contesti pubblici e privati, realizzate con tempi serrati e con l’implicita pressione di produrre opere, una dietro l’altra, spesso senza neanche una reale retribuzione per giustificare una presenza professionale nel mondo dell’arte, da un lato ha consolidato il mio lavoro dall’altro ha creato nel tempo uno spazio di
disengagement e frustrazione rispetto alle mie motivazioni sul perché produrre arte. Dopo aver passato 5 anni in Italia, nel 2017 ho scelto di tornare a Londra con l’intento di sottrarmi ad una modalità di produzione in cui mi sono vista ripetere, anzi erogare sempre la stessa funzione “elaborante”, mancando in parte la crescita creativa e personale di cui avevo bisogno, ovvero vivere scoperte funzionali alla mia ricerca piuttosto che all’esecuzione di risultati richiesti dai contesti.
Amelia Jones (1) spiega che se
la storia dell’arte con le sue narrazioni e istituzioni tra loro correlate (mostre, gallerie, mercato, critica e curatela) si ostina a “bloccare” l’opera, a circoscriverla quale “oggetto” distinto e riconoscibile, l’analisi dell’aspetto performativo la “sblocca” ricordandoci la contingenza del suo significato e valore.
Oggi mi interessa esplorare l’uso di questo medium ponendomi la necessità di renderlo funzionale ad un mio percorso di analisi e trasformazione del reale che consiste nel prendere coscienza di come esperiamo il mondo, raccontando le possibilità di confronto e reciprocità di corpi che diventano strumenti al contempo cognitivi ed emozionali.
Ho applicato questo input quando sono stata invitata a ragionare sulla parola ‘trasmissione’ per un incontro pubblico organizzato da Habitat-Scenari Possibili a Cernusco sul Naviglio il 19 Settembre 2020 e curato da Francesca Guerisoli, curatrice con cui collaboro da anni e con la quale condivido il medesimo impegno divulgativo riguardo la fruizione e comprensione del contemporaneo nel contesto dell’arte pubblica italiana. Ho interpretato il concetto di trasmissione nell’arte contemporanea come un passaggio da corpo (dell’artista) al corpo (del partecipante), dallo stesso allo stesso in quanto com-presi insieme nello stesso presente (direbbe Perniola (2 ) ma considerandolo un’enigma dal punto di vista dell’effetto che provoca su chi fruisce l’opera. Per ragionare collettivamente su questi significati, ho deciso di produrre un’azione della durata di 15 minuti circa e di discuterne poi insieme al pubblico convenuto.
Il mio intervento è iniziato con lo spiegare al pubblico che nel mio modo di pensare e produrre performance, la relazione con i partecipanti prevede sempre un atto di fiducia e affidamento nei miei confronti, al pari di come io mi espongo a loro nella realizzazione dell’opera. Ho poi aggiunto che per ragionare insieme sulla tematica scelta avevo preparato un esercizio da realizzare insieme che prevedeva l’indossare una mascherina chirurgica fornita da me (al posto della propria o sopra la propria) e da me precedentemente manipolata, dicendo loro che, pena la riuscita dell’esercizio, non potevo spiegare in quel momento come lo avessi fatto ma rassicurandoli sulla mia cura e porgendo una liberatoria da firmare proprio per poter consentire legalmente questo atto.
Quando questo passaggio è stato meticolosamente eseguito da tutte le persone disponibili a fare l’esercizio, mi sono seduta sulla sedia preposta, indossando la mia mascherina manipolata al pari di quelle offerte ed ho letto al microfono un breve testo della durata di circa 5 minuti. Si trattava di un cut-up di alcuni articoli di quotidiani, riportanti le ultime conversazioni di Gloria Trevisan e Marco Gottardi con i propri genitori prima di morire nel rogo della Grenfell Tower a Londra, nel Giugno 2017.
Le mascherine erano state precedentemente affumicate da me e, successivamente alla breve ma difficile lettura, ho conversato con i partecipanti sul concetto di trasmissione che avevo espresso, associando sensorialità e contenuto emotivo all’interno di una dinamica relazionale che ha coinvolto tutti i presenti nel vivere, seppure per pochi istanti, lo stesso immaginario con le molteplici derive emozionali annesse.
Si è realizzato un reale processo di trasmissione da me a loro, da loro a me, da noi a noi, raccontando una storia dolorosissima di genitori attaccati ad un "filo" di trasmissione, del cellulare in questo caso, per sentire e trattenere gli ultimi minuti di vita dei propri figli.
Abbiamo poi analizzato, grazie anche agli interventi degli altri artisti invitati all’evento Filippo Berta ed Oppy De Bernardo, il senso del rovesciamento proposto: l’uso del dispositivo di protezione personale che da elemento di separazione è diventato in quel contesto un elemento di condivisione, un “ponte” (come definito da una partecipante) per una intensa percezione collettiva.
Produrre arte relazionale ai tempi del Covid è dunque diventato per me porsi il problema di affrontare tematiche quale il desiderio di com-prendere l’altra-altro da sé, il rischio e la paura che questo suscita, il consenso necessario per farlo e la cura alla base affinché ciò sia realmente possibile e dunque la fiducia. A questo scopo, sto investigando i dispositivi di protezione personale come mezzi che permettono uno scambio ed una prossimità proprio perché in grado di veicolare una conversazione / contrattazione sullo spazio fisico ed emozionale che si è disposti a concedere agli altri, permettendo uno sguardo composito sulle trame del desiderio e della impossibilità a cui il sopravvivere a questo virus, come individui e collettività, ci ha – per il momento – relegato.
Chiara Mu
Diplomata nel 2001 in Scenografia all'Accademia di Belle Arti di Roma, ha conseguito il Master in Fine Art al Chelsea College a Londra (2009). Si occupa di time-based art; nel 2018 ha pubblicato per la Castelvecchi il libro: Performance Art: traiettorie ed esperienze internazionali, una raccolta di saggi di artisti e critici stranieri mai tradotti prima in italiano. Ha collaborato con “Condotto C” e AlbumArte a Roma, con l’Auditorium – Fondazione per la Musica e il Museo Macro, con “CIAC” Museo di Arte Contemporanea di Genazzano e la Fondazione Pietro e Alberto Rossini in Brianza, con le gallerie “Edieuropa-Qui Arte Contemporanea” e Bibo’s Place di Todi. Ha prodotto performances per i Comuni di Venezia, Milano e Napoli e workshop in pratiche site-specific per le Accademie di Belle Arti di Bologna e Firenze. Ha inoltre collaborato con il dipartimento della didattica di Palazzo Strozzi sulla formazione delle guide in Performance Art e con Yunnan Art University (Cina), RUFA, Saci Art Centre a Firenze e Università Milano Bicocca.
Note
1 - Amelia Jones “L’adesso e ciò che è stato: paradossi dell’arte dal vivo” in
Performance Art. Traiettorie ed esperienze internazionali, a cura di Chiara Mu e Paolo Martore, Castelvecchi Editore, 2018, pag. 12
2 - Mario Perniola,
Transiti. Come si va dallo stesso allo stesso, Bologna, Cappelli, 1985