Hobby vs. Obbligo
Muna Mussie
Hobby vs. Obbligo
SACI Gallery
In collaborazione con Black History Month Florence
Il lavoro di Muna Mussie, tra gesto, visione e parola, indaga i linguaggi della scena e delle performing arts per dare forma alla tensione che scaturisce tra differenti poli espressivi.
La mostra
Hobby vs. Obbligo che Muna Mussie propone alla SACI Gallery a Firenze, in collaborazione con BHMF - Black History Month Florence, si ispira al tema della quinta edizione di questo festival, Obbligato, incoraggiando lo spettatore a meditare su una molteplicità di narrazioni parallele, distanti tra loro nella concezione del bisogno in opposizione al desiderio e obbligo in opposizione ad opzione.
La serie di quadretti
Estero è dedicata alla percezione contrastante del viaggio come lusso e del viaggio come tattica di sopravvivenza.
Milite Ignoto, un’opera video affronta i monumenti nazionali della memoria e il loro significato mutevole tramite le immagini trovate nei simboli nazionali o nell’ archivio familiare, è il racconto e le immagini di alcune ricostruzioni performative.
Punteggiatura è un libro ricamato fatto durante i molteplici incontri che l’artista ha avuto con le donne provenienti da paesi stranieri. Nel libro raccontano le loro storie usando il ricamo come linguaggio che esplora le conversazioni collettive e l’astrazione della geografia. Il ricamo è anche una delle prime professioni femminili, che hanno permesso alle donne di dare il via alla propria emancipazione.
Muna Mussie, Hobby vs. Obbligo, inaugurazione mostra alla SACI Gallery, Firenze, febbraio 2020 Ph. Diego De Franchis
Špela Zidar - La tua pratica artistica spazia dalla performance, linguaggi della scena per arrivare al gesto, oggetto e la parola. Perché spaziare tra i linguaggi è importante per la tua arte? Come si uniscono tutti questi aspetti nel tuo lavoro?
Muna Mussie - Il mio non è un percorso classico, accademico. Ho incontrato il teatro per caso, l’ho incontrato letteralmente per strada, sono stata avvicinata, sotto un portico di Bologna da una donna, Fiorenza Menni, cofondatrice, assieme a Pietro Babina, del
Teatrino Clandestino; mi proponeva di partecipare ad un laboratorio teatrale condotto da loro con l’intento di scegliere l’interprete di Ariel della
Tempesta di Shakespeare (andò bene). Sono molto affezionata a quell’incontro, al quel tipo di approccio, informale e privo di sovrastrutture, ed è con quello spirito che mi sono affacciata ad un mondo non del tutto famigliare ma che una spinta propulsiva mi ha fatto perseguire. Altri due incontri importanti hanno segnato il mio percorso: la
Scuola per il perfezionamento dell’Attore, guidata della compagnia
Teatro Valdoca, fondata da Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri, e il collettivo
Open (Bibi Agosto, Mimmo Allamprese, Silvia Calderoni, Valeria Di Modica, Muna Mussie, Cristina Rizzo, Davide Savorani, Valentina Stagnozzi, Lisa Bentini, Silvano Voltolina, Luca Mattei). Quest’ultima esperienza, impostata sul dialogo, sulla condivisione di visioni e saperi differenti, è stata foriera di una presa di coscienza: assumermi definitivamente la responsabilità di essere artista.
Non era più vero che per fare teatro dovevo interpretare personaggi che avessero a che fare con il colore della mia pelle. Il mio corpo, la mia storia sono già il mio personaggio.
Il concetto di sconfinamento lo sento vicino perché fa leva sulle mie radici-sradicate. Mi appartiene un sentimento di de-costruzione, di non appartenenza che è il filtro con cui guardo, vivo e opero; la ricerca costante di una coesione estetica è il mio quotidiano, salvifico esercizio.
Confido nel caos cosciente che è la forma della natura; più mi concedo al caos, più capienza e spazio genero.
C’è solo l’illusione del controllo, per il resto per me funziona tutto come il sistema complesso dei sogni. Ogni cosa si giustappone come in una chiamata a raccolta tra forze lavoro, unite da un’alleanza “indescritta” e indescrivibile.
La mia è un’autodisciplina guidata dalla potenza immaginifica che intercorre tra le varie entità messe in gioco: visive, sentimentali, formali, concettuali e tecniche.
La miscellanea dei diversi linguaggi l’ho appresa in teatro, il teatro necessita di tutto o di niente. Con il collettivo
Open ci interessava focalizzarci, di volta in volta, su formati differenti, era un modo di studiare nuovi metodi di lavori e di strategia.
Tutt’ora con i miei progetti so che posso acquisire delle tecniche nuove, necessitare del sapere di qualcuno o del corpo di un altro, l’importante è muovermi per gradi, far maturare la domanda e quando capisco di cosa ho bisogno, lo cerco. Spesso è il tempo a determinare la resa del lavoro; durante il processo creativo vivo come in ostaggio di un’attesa in divenire, attiva, laboriosa, contrastata dal flusso della quotidianità; faccio esperienza di piani di coscienza differenti ma che arrivano sempre allo stesso punto: dovermi consegnare all’Altro.
Ciò che mi affascina è la possibilità di suggerire affiancamenti enigmatici, ipotesi di convivenze problematiche, stridii visionari, psicadelie lucide, dare la precedenza alla scomodità, decifrare la logica dello scarto linguistico e dichiararlo formalmente. Rischio lo stigma della follia (lo stesso stigma che non manca negli ambienti artistici, lo spazio-confine fatto di comunicazione, dove si smette di essere artisti per far posto al bigottismo-intellettuale).
Muna Mussie, Milite ignoto, 2015, video
ŠZ - Per la mostra alla SACI Gallery a Firenze in occasione del BHMF – Black History Month Florence hai scelto il tema
Hobby vs. Obbligo. Tutte le opere in mostra parlano dei punti di vista diversi riguardando gli stessi concetti. Ciò che dobbiamo fare e desideriamo fare non è sempre la scelta personale, ma sempre più spesso sociale e geografica. Cosa rappresenta per te questa tematica?
MM - Questa tematica per me rappresenta esattamente il momento in cui siamo, la condizione in cui l’uomo è obbligato a stare sia da un punto di vista politico, sociale ed esistenziale. Ha tutto a che fare con il desiderio. L’uomo è un animale desiderante, si muove e agisce per far fronte ai propri desideri. Il controllo dei desideri è l’arma del potere, dalla nascita delle religioni ad oggi. Il desiderio porta con sé un potenziale sovversivo che deve essere frenato, non è più alla portata del singolo individuo, ma dominio di politiche sociali ed economiche. È indirizzato e manipolato affinché sia funzionale allo status quo. Lo stato sociale ci ha insegnato che il desiderio, anche il più istintivo, primordiale, come quello della propria sopravvivenza, deve essere riscattato, o con il denaro, o con la vita. L’equivalenza è sconcertante.
Muna Mussie, Estero, veduta dell’installazione, SACI Gallery, Firenze ph. Diego de Franchis
ŠZ: Le tue opere partono dall’esperienza personale sviluppandosi verso l’esperienza collettiva. Come per esempio nel video
Milite Ignoto che si sviluppa dal racconto di tua nonna sulla sorte del suo figlio militare, riflettendo poi sempre più generalmente sulla tematica del milite ignoto. Le due esperienze, personale e collettiva, si intrecciano nelle immagini, gesti e racconti. Il protagonista di queste opere è spesso il corpo umano, comprensibile perché sei in primo luogo un’artista performativa. Il corpo per te rappresenta un ponte tra l’individuo e la società, un mezzo di comunicazione?
MM - Sono molto attratta dall’altro e al tempo stesso molto impaurita dall’incontro con l’altro, dove prima che la parola, a parlare è il corpo e spesso manifestando sofferenza. Attraverso il teatro ho scoperto un paradosso: più si è esposti (in scena) e meno si teme l’altro: il corpo performativo ha una sua centralità fortemente ispirata che gli permette di essere sempre nell’hic et nunc, un presente che è la forza infusa dallo sguardo dell’altro.
Il progetto
Milite Ignoto parte tutto da una domanda-coincidenza: Cosa lega il Milite Ignoto a Milite Ogbazghi (mia nonna) oltre il nome che li accomuna? È stata una sorpresa scoprire che Milite nella mia lingua materna, il tigrino, significa Maria e che Maria (Bergamas) era il nome della donna a cui fu assegnato il compito di scegliere, nel primo dopoguerra, la bara per il Milite Ignoto poi posta sull’Altare della Patria a Roma.
Il video
Milite Ignoto si dipana tra i racconti audio riportati da mia nonna, le sue immagini in bianco e nero di una vita in Eritrea e le figure – simbolo ricreate dal performer (mio fratello) Sherif. Questo processo mirava a mettere in atto una serie di studi che indagassero ulteriori nessi o discrepanze tra i soggetti nominati e che si allineassero quanto più alla natura della coincidenza: un fenomeno che tende a minare le certezze del pensiero razionale, fondato su verità assodate e ad aprire varchi su piani più emozionali, portatori di verità soggettive, arbitrarie e dunque cortocircuitarie.
In
Milite Ignoto il corpo rappresentato dalle fotografie di mia nonna Milite, e il corpo in movimento del performer Sherif, sono dei catalizzatori emotivi sullo sfondo di una narrazione non sempre felice. I corpi in questo caso incarnano lo scompenso di senso e tentano di portare senso tra i punti d’accordo dei differenti piani narrativi. Non agiscono mai in maniera narrativa, sono a servizio della narrazione, poiché sono più forti della narrazione stessa.
Muna Mussie, Estero, veduta dell’installazione, SACI Gallery, Firenze Ph. Diego De Franchis
ŠZ - Nell’opera
Estero, i cartelli con i nomi delle 18 regioni italiane e il cartello con la parola estero, che hai trovato in una cantina, sono esposti anteponendo l’Italia all’Estero. In questo momento socio-politico di migrazione forzata, i concetti casa e estero moltiplicano i possibili modi di interpretazione e acquisiscono molteplici connotazioni?
MM - La serie Estero è una sequenza di 19 piccoli riquadri, trovati in una vecchia cantina di vini. La collezione ha catturato subito la mia attenzione per via di alcuni fattori scatenanti:
-Tutti i riquadri sono uguali: cornice 30 x 15, in legno scuro, stampa in bianco e nero con font littorio, stile fascista, su carta avorio.
-Ogni riquadro riporta il nome delle diverse regioni italiane:
Val D’ Aosta, Piemonte, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria, Puglia, Sicilia, Sardegna.
- All’ appello mancano due regioni, il Molise e la Basilicata.
- Uno dei riquadri riporta il nome Estero.
Ho guardato a questi oggetti come a corpi in viaggio con dei nomi propri; mi hanno trasmesso subito un grande senso di separazione e di mancanza.
Oggi viaggiare per molti è diventato un hobby, un accessorio, un corredo della propria vita, un elenco di luoghi da collezionare-colonizzare e mostrare. Per molti altri viaggiare è un Obbligo, imposto da circostanze spiacevoli. In quest’ultima ipotesi ciò che succede tra un qua e un là, ha risvolti spesso tragici.
L’ installazione della mostra si designa così: i riquadri sono affissi su due pareti speculari, una parete è occupata dalle 18 regioni Italiane e l’altra parete è occupata dall’Estero. Il fruitore della mostra è invitato/obbligato a stanziare tra le due pareti e a fare esperienza di quello spazio tempo che intercorre da un luogo all’altro; è invitato a percepire, tramite la mancanza delle due regioni, Molise e Basilicata, la perdita di un numero di corpi, provocata dal viaggio.
Muna Mussie, Milite ignoto, 2015, video
ŠZ - Quanto potere ha il linguaggio nella definizione di un’identità e nella percezione dei concetti e preconcetti? La parola per te ha anche una connotazione estetica dal punto di vista formale?
MM - Il linguaggio ha un potere che sovrasta: educa, canalizza, codifica, è in grado di generare guerre o pace, è tutto, ed è l’unico modo che abbiamo per capirci o fraintenderci. L’equivoco si annida nel linguaggio e, in uno strato sociale dove c’è povertà di empatia, l’equivoco regna.
Penso che identità e linguaggio siano strettamente legati dal carico di storia e di informazioni che hanno scritto la storia; tutti portiamo il peso del mondo, nessuno escluso. Nasco in un posto, mi viene assegnato un nome e poi assorbo fin quando la mia capacità di discernere mi permette di dire: questo lo porto con me e questo no. Nel momento in cui intervengo come una cesoia sull’identità tramandata (traumatico se imposto da terzi), determino anche la plasmabilità del linguaggio. (Un concetto questo, suggerito dal pensiero di Romeo Castellucci, a proposito di che cos'è Segnare). Credo che l’uomo faccia questo da secoli e che l’artista senta un’urgenza superiore nell’accelerare questo processo.
La parola per me è una delle forme che traducono il pensiero e il pensiero è estetica.
Muna Mussie, Hobby vs. Obbligo, veduta della mostra, SACI Gallery Firenze ph. Diego de Franchis
ŠZ - Nel tuo lavoro
Punteggiatura utilizzi la lingua come spazio politico-affettivo. Con le donne straniere, provenienti da tutte le parti del mondo concepisci un lavoro collettivo, un libro di ricami sul tessuto, un tessuto sociale uno spazio per lo scambio di idee. Come ha funzionato la creazione e perché la scelta del libro ricamato?
MM - Da anni possiedo una macchina da cucire digitale acquistata con l’intento di trascrivere sotto forma di ricamo parole e segni da indossare.
FFMM è il primo progetto sviluppato da me e l’artista Flavio Favelli nel 2007 attorno a questa idea; si tratta di una collezione di abiti su cui sono trascritte date, luoghi, numeri di telefono, targhe appartenenti alla storia pubblica o privata di noi tutti. La collezione è stata presentata alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e al Museo Marino Marini. Assieme al progetto FFMM, ho creato diversi quadretti o piccoli oggetti che seguono le stesse intenzioni. Nel dicembre 2017 Piersandra Di Matteo, curatrice di
Atlas of Transitions Biennale Right to the City mi chiese di pensare a come mettere in dialogo la mia ricerca sul ricamo con i saperi più tradizionali del ricamo legati a differenti culture. Mi segnalò
Scuola delle donne come luogo fulcro per intessere questo dialogo; la
Scuola delle donne è uno spazio del quartiere Pilastro di Bologna, in cui donne migranti, di diverse generazioni e provenienze, possono imparare l’italiano, incontrarsi e organizzare laboratori. Questo tipo di scuola, dove le donne non solo vanno per imparare ma possono anche insegnare qualcosa sulla loro cultura, il loro sapere e il loro trascorso, mi ha suggerito di lavorare sull’idea di libro.
Punteggiatura vuole evidenziare questo scambio di posizioni. A partire dalla
Scuola delle donne il raggio di collaborazione si è ampliato a dismisura grazie ad una rete di realtà differenti.
In tutto ho avuto la possibilità di incontrare e parlare con una quarantina di donne provenienti da più Paesi: Nigeria, Camerun, Albania, Serbia, Moldavia, Italia, Cina, Russia, Iran, Palestina, Guinea, Congo, Marocco, Eritrea, Etiopia, Argentina, Lettonia, Somalia, Costa D’Avorio.
Non potendo imporre giorni orari prestabiliti mi organizzavo di volta in volta, accogliendo ciò che era la disponibilità di ognuna e con il massimo rispetto. È stato questo il passo che ha segnato tutto il processo di costruzione. Varcati i primi scogli si è aperto veramente un mare. Quasi ogni giorno per circa tre mesi ho percorso la città e la periferia per incontrare e rincontrare queste donne, tra scuole, piazze, biblioteche, librerie, parchi, bar e le case delle donne stesse. Per me il diritto alla cittadinanza è stato anche questo, vivere intimamente i luoghi della propria città, viverli anche così privatamente, in un rapporto a due dove ci si incontra si scambia del tempo assieme, si beve un caffè e ci si concede all’altro.
Il libro ruota tutto attorno ad alcune domande:
Cos’è un libro per me?
Cosa vorrei scrivere a chi mi leggerà?
Cosa vorrei si sapesse di questo nostro tempo?
Cosa vorrei non si sapesse di questo nostro tempo?
Cos’è la verità per me?
Cosa non è la verità per me?
La prima cosa che ricordo di avere imparato a fare?
La prima cosa che vorrei insegnare a chi verrà dopo di me?
Ho individuato queste domande per me topiche che permettessero alle donne incontrate di parlare di sé stesse e allo stesso tempo di fare un’analisi del mondo circostante. La prima domanda che ho posto è stata “Cos’è un libro per te?” Era importante che chiunque avesse la propria consapevolezza e padronanza dell’oggetto che si andava creando. Attraverso queste domande, ho cercato di mettere in campo dinamiche di spostamento del pensiero che riflettessero sul binomio qui e là, presente e passato, positivo e negativo – non solo come unica conseguenza del fenomeno migratorio ma come conseguenza naturale della vita stessa – e di lanciare questi pensieri in uno spazio emotivo comune che guardasse assieme al futuro, per dargli un futuro. Mettere per iscritto i pensieri e saperi di queste donne con un processo tanto intricato come è stato
Punteggiatura, ha voluto dire per me marcare in profondità un luogo, segnarlo in maniera indelebile.
La maggior parte delle donne le ho incontrate singolarmente mentre altre a piccoli gruppi. Dopo un primo incontro conoscitivo, i dialoghi sono continuati in modalità estremamente colloquiale, a tu per tu o per iscritto.
Oltre allo scambio di pensieri le donne coinvolte sono state invitate a creare un loro ricamo su una propria pagina di stoffa. Non tutte avevano abilità in merito, o desiderio di cimentarsi, per questo alcuni ricami bozze di ricami (carichi di messaggi) sono stati delegati a me e al laboratorio sartoriale a cui mi sono appoggiata. Ho scelto io il tipo di tessuto su cui operare, un lino bianco avorio e tela di fusto, una buona base perché neutra e resistente. Questo era il contenitore a disposizione di tutte le partecipanti, le parole, i disegni e colori dei ricami, sono tutti frutto della loro opera.
Muna Mussie, Punteggiatura, libro ricamato (dettaglio)
Ph. Lindsey Nicole Dugger
Hobby vs. Obbligo