I sette samurai è la prima personale di Paolo Fabiani alla galleria ME Vannucci di Pistoia: un
grande progetto unitario che propone al pubblico il lavoro di un anno intero in cui l’artista si è
impegnato nell’interpretazione del mondo eroico affrescato da Akira Kurosawa nel capolavoro
cinematografico del 1954. La sensibilità dell’artista, con la sua speciale attrazione per l’espressività
della materia, incontra qui il mondo del regista giapponese dando forma a una serie di opere che
estendono, in diversi formati e tecniche, una narrazione fortemente compatta, esteticamente e
linguisticamente. Lavori pittorici, sculture e una grande installazione invadono lo spazio della
galleria e creano uno scenario che si muove costantemente dalla scala del paesaggio alla
figurazione di stati emotivi e tensioni eroiche.
Il rapporto con il film cult non è, ovviamente, letterale né di commento ma descrive la
frequentazione di uno stesso territorio poetico. Fabiani, figura di spicco di una generazione di artisti
che ha segnato il paesaggio degli anni Novanta, è dotato di una fortissima specificità estetica,
completamente avvinta agli strumenti, ai materiali, ai medium che utilizza. Muovendosi sul crinale
tra attenzione alla tradizione e interpretazione iconoclasta, ha solitamente prediletto le iconografie
della commedia dell’arte assieme a una corte picaresca di personaggi che affollano le sue opere.
Con I sette samurai Fabiani si confronta con una dimensione eroica, sia per quanto riguarda i temi
sia per le proporzioni di questa serie di lavori in cui torna anche la tecnica che lo ha reso noto agli
esordi con I Soffi.
Paolo Fabiani, veduta della mostra I sette samurai. Galleria ME Vannucci. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy galleria ME Vannucci, Pistoia.
Dell’uomo velato e l’ombra del paesaggio
testo di Mirco Marino
D’improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell’immensità
E l’uomo
curvato sull’acqua
sorpresa
dal sole
si rinviene
un’ombra
Cullata e
piano franta
(Giuseppe Ungaretti, Vanità, 1917)
L’artista crea nel proprio presente, sul capitello di un’altissima colonna in marmo le cui nervature non sono altro che le forme artistiche sedimentate nel loro presente-passato. Giano, dio bicefalo delle soglie, del passaggio presenta due occhi per guardare al passato e due occhi per guardare al futuro e si pone, irrimediabilmente nel proprio presente.
Paolo Fabiani ne I sette Samurai somiglia più a Giano che a Goku. Entrando nella Galleria Vannucci di Pistoia piccoli idoli costretti accolgono il visitatore alla mostra a cura di Pietro Gaglianò. Sono degli oggetti discreti, delle piccole preghiere silenziose che scompaiono nella veduta globale della galleria ma esistono nel loro delicato essere nello spazio. Una barra led illumina dal basso le sculture celate da del nastro bianco. La caratteristica di velatura dissimula la struttura interna delle sculture ma dà forma a ciò che vediamo, ciò significa che è proprio attraverso il celare che le cose si danno a vedere. Di fatto, la pratica del velare sembra ricoprire isotopicamente le sculture in mostra, creando una trama visuale che sottolinea il bilanciamento e la coerenza curatoriale.
Paolo Fabiani, 2021, La montagna sacra, smalto su telo sintetico, cm. 600 x 300. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy galleria ME Vannucci, Pistoia.
È così che lo sguardo si sposta al centro dello spazio ex-industriale della galleria. Un gigante curvo è immobile e non si cura dello spettatore. Il nero lucido del materiale modella forme umane che riecheggiano una narrazione tra realismo e astrazione. È il velo della plastica che riflette la luce proveniente dall’ampia finestra sotto la quale il pensatore sopravvive: il nudo nero che cerca la luce non è nessuno, si spoglia di ogni tratto di somiglianza, ciò che resta è la sagoma levigata della plastica, un monumento antieroico al nessuno che è l’ombra dell’uomo contemporaneo. Per una vicinanza gestuale ricorda proprio la celebre scultura di Rodin, modellata drammaticamente nel bronzo, ma non è lo stesso uomo, non è la celebrazione dell’eroe e la plastica che lo ricopre e lo mostra tende a sottolineare questa distanza dall’archetipo eroico che caratterizza le sculture monumentali.
La scena che fa da sfondo al monumento è un paesaggio, soffiato, gestuale, bianco e nero che, su un telo che ricopre l’intera parete, esplode negando la possibilità di percezione unica. Anche alle prese col paesaggio Fabiani ritratta la possibilità di riconoscimento, ciò che è raggiunto in scultura con la velatura si traduce nel passaggio tra medium e medium con la frammentazione e sfumatura del visibile. La tecnica del soffio, a cui nel corso della sua carriera artistica Fabiani ha fatto più volte ricorso, tende a sottolineare nuovamente una sorta di negazione della materialità, una gestualità che rifugge la manualità a favore di un intervento più astratto, che è necessariamente connesso al divino e al vitale, al soffio con cui Dio crea l’uomo dalla polvere. Sono allora imperfetti i paesaggi soffiati dal pittore, sono scuri e ostili, ipnotizzano nella ricerca di forme riconoscibili che una volta afferrate dall’occhio scompaiono nella metamorfosi continua delle sensazioni naturali del mondo. I paesaggi esposti rinnegano il romantico idillio a favore di una visione più pessimistica, che si addice forse di più al sentire naturale contemporaneo, una paesaggio che approda agli anni Venti del ventunesimo secolo comprendendo la visione del materiale dell’ultimo naturalismo italiano ma allontanandosi dalle cromie intense espressioniste e dalla fiducia posta nella natura.
Paolo Fabiani, 2022, Paesaggio, tecnica mista su tela, dimensioni variabili. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy galleria ME Vannucci, Pistoia.
Sulla parete adiacente dei paesaggi di più ristrette dimensioni saturano lo spazio. Il bianco e nero muta in un rosa che sottolinea un’espressività pop che esiste nel lavoro dell’artista e che aggiunge al sentimento oscuro dei grandi teli una vena più kitsch solo accennata. Con una dinamica simile al grande telo nero, la percezione dei paesaggi è nuovamente frammentata, questa volta per impressioni distinte che lungo la parete nuda dell’ex officina raccontano un mondo, tanto interiore che esteriore, inquieto. Una natura viva in quel gap tra realismo espressionista e astrattismo gestuale che a un tratto sembra poter essere afferrata nella sua interezza e che subito dopo sfugge ad ogni possibile istanza descrittiva. Montagne, alberi, colline, corsi d’acqua, si confondono con le ombre di loro stessi in vedute che riemergono sul primo piano della tela come da un abisso lontanissimo.
Paolo Fabiani, veduta delle opere Prigione liberato, Reverse Atlas, Prigioniero. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy galleria ME Vannucci, Pistoia.
Nella ridotta stanza in fondo alla galleria tre buccheri organizzano lo spazio in quella che sembra essere una solitudine relazionale. L’atmosfera si trasforma in deserto, le sculture interrogano il vuoto attorno al loro movimento, accennato dal velo che le ricopre. La prima, più vicina allo spettatore che entra nella stanza è Prigioniero liberato. Il materiale bucchero, ceramica utilizzata dagli etruschi fin dal VII secolo a.C. che richiama quindi un tempo lontanissimo, si lega profondamente alla terra dell’Etruria quindi al territorio dell’artista toscano. La scultura è posta su un piedistallo che è il suo stesso calco, lungo entrambi corre una crepa che rende instabile la composizione, una ferita che lega la scultura alle istanze della sua creazione e che sembra esprimere un sentimento di nascita. Dietro di questa, all’angolo, Reverse Atlas poggia il suo peso su quello del mondo. La figura inverte il mito di Atlante e racconta di un’umanità che grava sulla terra. A lato un vento caldo e sabbioso del deserto deforma e da forma al bucchero Prigioniero. La scultura è presentata a terra, a contatto col pavimento grigio della Galleria Vannucci, la forma umana è accennata sotto a un tormentato velo che annulla e allo stesso tempo delinea l’esistenza del corpo, è astratta da ogni segno di riconoscibilità, è un nuovo nessuno, e proprio per questo un nuovo chiunque.
Paolo Fabiani, veduta della mostra I sette samurai. Galleria ME Vannucci. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy galleria ME Vannucci, Pistoia.
Ciò che appare allora nella mostra I Sette Samurai di Paolo Fabiani sembra essere un discorso sull’umanità, sulla natura e sulla classicità dell’arte. Da un lato l’eroismo antiromantico di un uomo senza identità, di un monumento muto che sfugge alle letture descrittive e attraverso la pratica delle velatura astrae il suo soggetto in un nessuno che equivale al suo chiunque. Da un altro lato la natura soffiata è una natura a stretto contatto con l’idea di creazione divina, che nega nelle sue forme inquietanti ed elusive, a tratti comprensibili, a tratti inafferrabili. Le dimensioni eroiche de La montagna sacra tendono a sottolineare l’aspetto monumentale dell’esibizione presentata alla Galleria Vannucci, ma si tratta, ancora una volta, di una monumentalità che si bilancia sull’asse tra affermazione e negazione sul secondo dei due poli, esprimendo un negativo che è traccia di un positivo sotterraneo, celato, ma allo stesso tempo espressivo.
Le forme di Fabiani sembrano così attingere da un patrimonio storico-artistico gestuale che rinasce, che vive delle dinamiche delle fonti. Sarà allora necessario guardare alle opere esposte attraverso una sorta di velato, nuovamente, classicismo. Il negativo espresso dall’artista è quello del positivo del Pensatore, delle crepe violente di Leoncillo, dell’Ultimo Naturalismo degli anni Cinquanta, si tratta di un negativo che, come l’uomo postbellico di Giacometti, cammina solo nel deserto, senza mete, ma è allo stesso tempo pieno, vivo, che riesce nel ricalibrare l’eroismo in un messaggio universalmente umano.
Paolo Fabiani, Prigioniero e Reverse Atlas, bucchero. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy galleria ME Vannucci, Pistoia.
Paolo Fabiani
(Montevarchi 1962) ha iniziato il suo itinerario artistico alla fine degli anni Ottanta dipingendo alberi e cieli con un metodoa soffio(attraverso una cannula il pneuma arriva al colore e lo indirizza, creando forme appunto simili ad alberi e cieli). La sua ricerca lo ha portato ad unire ai dipinti piccole sculture in argilla cruda, ceramica o gesso. Intorno al 1993 l’elemento tridimensionale ha preso il sopravvento e l’interesse dell’artista si è focalizzato soltanto sulla scultura.
Il suo lavoro è stato presentato, tra l’altro,alle XXXIII e XXXIV edizioni del Festival dei Due Mondi di Spoleto, alle Orestiadi di Gibellina, alla Quadriennale di Roma, al National Museum Of Contemporary Art di Seul, a Viafarini, Milano, al Museo Civico, al Palazzo delle Papesse e al Museo per Bambini, Santa Maria della Scala, a Siena, alla Galleria Nazionale d'arte Moderna e Contemporanea di Roma. Ha esposto in numerose gallerie come N. 29, Ginevra,Carini, Firenze, Bagnai, Siena, Gentili, Firenze, Eva Menzio, Torino, Margiacchi, Arezzo, L’attico – Fabio Sargentini, Roma.
Dal 2016 dirige Stand Up For Africa, arte contemporanea per i diritti umani, piattaforma di arte contemporanea e diritti umani, a Pratovecchio-Stia (Arezzo).