Daria Filardo - Memento l'ossessione del visibile è un libro che sviscera e scardina l'affermazione del potere attraverso la forma monumentale. Nell'analisi di alcuni momenti della storia del ventesimo e ventunesimo secolo, il testo sgretola la visione patriarcale, gerarchica e celebrativa, e propone diversi modelli di racconto della memoria. Il libro si situa come voce critica, del dissenso, della minoranza, della rivendicazione di un'appartenenza. Pietro Gaglianò ci racconti perché l'analisi del linguaggio è così importante nel tuo libro?
Pietro Gaglianò - Tutto quello che concepiamo come pensiero (e che assume poi la forma discorsiva di opinione sulle cose, di costrutto mentale nella relazione con gli altri e con la società) lo concepiamo nella forma del linguaggio verbale. Le cose (che pensiamo e che diciamo) sono conseguenza delle parole con cui le formuliamo mentalmente. E nel linguaggio si depositano tutti gli esiti delle costruzioni ideologiche e identitarie basate, quasi sempre, su criteri di esclusione. I monumenti celebrativi sono stati disseminati per secoli nello spazio pubblico con lo stesso obbiettivo: disciplinare le masse e creare dei parametri rispetto alla norma, al legittimo e il possibile. La forma delle parole è una specie di negativo di quella dei monumenti, ed entrambe agiscono sui processi cognitivi. Per una revisione critica del senso e del sgnificato (e delle future possibilità dei monumenti) è necessario prendere atto di questa connessione e partire proprio da una rifondazione del linguaggio verbale, con consapevolezza critica, con autonomia di giudizio.
Maurizio Nannucci, Something happened, 2009. Neon installation, 4,000 x 350 cm. Villa Medicea La Magia. Photo: Carlo Cantini. Courtesy of the artist.
DF - Il dipanarsi del racconto tocca orizzontalmente diversi momenti storici e il tema molto centrale della relazione fra Arte e Potere, Politica e Poetica e tu scegli, nel nostro mondo dominato dalle immagini, di raccontare questa ossessione (del visibile) attraverso forme di sparizione. I meccanismi del potere e le sue implicazioni sono la soglia attraverso la quale l'artista prende una posizione forte, militante. Ci racconti la tua scelta di scrivere di arte solo a parole?
PG - È una scelta necessaria, nata dall’osservazione dei meccanismi con cui il potere colonizza l’immaginario: fornisce concetti precostituiti, immagini aderenti alle idee in modo inappellabile, atrofizzando la capacità creativa della mente, sempre più abituata a delegare le proprie facoltà ad altri strumenti. Il facile, immediato, accesso al visibile ha progressivamente eroso la capacità individuale di elaborare una propria visione del mondo. È un processo parallelo a quello compiuto per secoli attraverso i monumenti. Sono il web e gli altri campi semantici della cultura di massa i nuovi persuasori, e come i primi anche questi lavorano sull’atrofizzazione della capacità di giudizio autonomo. Un libro che parla di cose visibili senza mostrarle è un esercizio, per chi lo ha scritto e per chi lo legge, per stimolare l’immaginazione, per trovare nuove immagini, per cercare le parole per descriverle.
DF - Something Happened, come ci ricorda Maurizio Nannucci. Quale è secondo te il ruolo dell'artista nella relazione con la società, con le sue forme?
PG - L’artista proviene dal campo sociale, ne è parte, e nutre il suo lavoro dal confronto e dal conflitto con questo dominio. È impensabile un lavoro artistico che non voglia prendere in considerazione la sfera delle relazioni, del linguaggio, delle connessioni che costituiscono la società. Il suo ruolo, per citare Thomas Hirschhorn, è quello di rendere possibile, accessibile al pubblico una nuova cultura pubblica. Tutto questo però deve essere fatto rimanendo nel campo del simbolico, senza cercare di fornire soluzioni, ma creando zone di disagio, svelandole a volte, per innescare la percezione in un altro mondo possibile (indipendentemente dalle intenzioni, dal linguaggio usato, dal perseguito significato dell’opera). In questo senso l’artista consacra l’immaginazione come la forma primaria della resistenza.
DF - Di cosa stai scrivendo adesso? Quale area credi sia complementare al racconto delle forme di rappresentazione del potere?
PG - Non riesco ancora a sentire come esaurita la mia ricerca sulle estetiche del potere, e i saggi e le mostre ai quali ho lavorato nell’ultimo anno sono ancora collegate a questi interrogativi. Con lentezza sto però iniziando a raccogliere il materiale per un lavoro che si posiziona come risposta allo scenario a volte drammatico che emerge da Memento, una specie di indicazione di metodo: la pedagogia sperimentale, nei formati artistici e non solo. La pedagogia dell’arte e nell’arte, quando non è appiattita sulla banale trasmissione di capacità manuali, artigianali, ha sempre seguito percorsi eversivi, perché è un allenamento dello sguardo, la coltivazione di un’abitudine del pensiero.