Annunciazioni
In occasione della mostra Hi Woman! La notizia del futuro
a cura di Francesco Bonami abbiamo deciso di riproporre in questo numero, per contiguità tematica, anche il testo introduttivo al catalogo della mostra L’evento Immobile. Annunciazioni (1)
redatto a quattro mani da Saretto Cincinelli e Cristiana Collu (attuale direttore de La Galleria Nazionale d’arte Moderna e contemporanea di Roma), un testo che offre una ulteriore e diversa declinazione del tema dell’Annunciazione,
al centro dell’odierna mostra Ai women!
ancora in corso (sino al 27 febbraio 2022) al Museo Palazzo Pretorio di Prato.
Pur proponendosi, come una mostra perfettamente autonoma Annunciazioni,
svoltasi nel 2010, si configura come la 4° edizione di una rassegna annuale, (promossa da Casa Masaccio, San Giovanni V.no e museo Man, Nuoro) che, nel periodo 2007-2012, ha avuto il merito di individuare nel legame tra immagine statica e in movimento lo snodo principe che, sin dalle origini del cinema, scava dentro a quel mutevole territorio di confine, che mantiene in stretta relazione fotografia, cinema e arte contemporanea e, secondo una linea carsica ma tenace, conduce dalle pionieristiche ricerche del cosiddetto ‘pre-cinema’ sino ai video digitali dei nostri giorni.
Nel corso degli anni la manifestazione L’evento immobile
ha cercato di indagare, attraverso molteplici modalità (prevalentemente cinema d’artista e video, ma anche installazioni, sculture e fotografie) un tema costitutivamente ambiguo, sfuggente, inclassificabile, che sta tra il movimento e la stasi, tra il prima e il dopo, il già e il non-ancora.
Quomodo (2)
Saretto Cincinelli Cristiana Collu
Dopo
Contrattempi, 2007,
Incantamenti, 2008,
Lo sguardo ostinato, 2009:
Annunciazioni (il plurale del termine non va sottovalutato) è il tentativo di declinare l’immobilità di un evento tramite il ricorso ad un topos iconografico tanto più tradizionale quanto più problematico e di difficile decriptazione in virtù della sua continua rielaborazione.
Nel corso dei secoli la scena canonica dell’
Annunciazione è stata trattata pittoricamente come una modalità di congiungimento fra una dimensione celeste e una dimensione terrestre, un congiungimento che riposa su una invisibile sutura fra due mondi incompossibili.
Una
sutura/cesura dissimulata nella rappresentazione che però, una volta illuminata, rivela il perturbamento, spazio-temporale e luminoso su cui si fonda la sua
mise en scène.
Soprattutto durante il ‘400 nella figurazione del tema gioca un ruolo essenziale l’utilizzo della prospettiva. Contrariamente alla celebre interpretazione di Erwin Panofsky, però, in alcuni casi, lungi dal rivestire un ruolo laicizzante, la prospettiva pare svolgere, secondo le interpretazioni di storici dell’arte come Daniel Arasse e filosofi come Georges Didi-Hubermann, un ruolo decisamente diverso: la griglia prospettica sembra, infatti, largamente utilizzata dai pittori del periodo proprio per mostrare l’inadeguatezza di una visione razionale a manifestare l’incarnazione del divino nell’umano, dell’invisibile nel visibile, dell’immensità nella misura e, in breve, l’
invisibile mistero della storia visibile dell’
Annunciazione.
Se è vero, infatti, che la prospettiva dona una misura allo spazio rappresentato, alcuni elementi del dispositivo pittorico di questi artisti resistono a ogni messa in profondità: è il caso della lastra di marmo dell’
Annunciazione di Piero della Francesca a Perugia (1460-1470), di cui possiamo incongruamente distinguere le venature che invece, ad una tale distanza, dovrebbero risultare impercettibili o degli “pseudomarmi” che caratterizzano l’
Annunciazione di Beato Angelico (1432 ca.) a San Giovanni Valdarno. Qualcosa di simile si verifica anche con la complessa costruzione prospettica dell’
Annunciazione con Sant’Emidio di Carlo Crivelli (1486) che, con le sue molteplici linee di fuga convergenti in un unico punto, esibisce il dispositivo prospettico, col risultato di finire per presentarlo come un artificio.
Filippo Lippi, Annunciazione (1438-1440). Serge Domingie, Senza titolo, 1993.
Intento dell’attuale mostra è rintracciare nel topos dell’
Annunciazione caratteristiche che modulano il tema generale della rassegna e indagare l’interdetto della performatività immobile che ne informa le rappresentazioni pittoriche, facendo della propria flagranza uno dei più formidabili eventi pittorici di sempre.
Installazioni, video, sculture, fotografie in mostra non si misurano con il tema in maniera frontale e diretta ma tramite uno sguardo obliquo che, nel luogo del confronto pare dissolversi, ritrarsi. Se eccettuiamo infatti il riferimento esplicito all’
Annunciazione di Filippo Lippi di Serge Domingie e quello molto libero ma puntuale di Megan e Murray McMillan alla citata
Annunciazione con Sant’Emidio di Carlo Crivelli e l’implicito, duplice metaforico omaggio reso da Massimo Bartolini all’
Annunciazione di Beato Angelico, nessuna delle opere in mostra appare geneticamente riconducibile a questo importante
topos della storia dell’arte.
A far da collante fra le opere resta, dunque, la comune dimensione incoativa che collega indissolubilmente l’immobilità di un evento al suo annuncio.
In una mostra, che rifugge dal regime della semplice citazione, più che la ripresa canonica di un tema, è all’opera la ripresa di ciò che potremmo definire un
dispositivo annunciativo: una complessa de-territorializzione di principi pittorici, una migrazione concettuale di schemi mentali e simbolici. Si tratta dell’assimilazione consapevole o inconsapevole di un’eredità.
Come ci ricorda Derrida, infatti, la questione dell’eredità non si risolve mai semplicemente nel mero ricevimento o nella mera accettazione; ciò che caratterizza un’eredità è “proprio il fatto di non poterla scegliere” (“è essa che ci sceglie in modo del tutto arbitrario e, per così dire violento”). “
Sono arrivato a pensare -afferma il filosofo- che… l’erede debba sempre rispondere a una sorta di doppia ingiunzione, a un compito contraddittorio… Si è responsabili di fronte a ciò che viene prima… ma anche nei confronti di ciò che deve ancora avvenire… l’erede è doppiamente in debito. Si tratta in entrambi i casi di una sorta di anacronismo: andare oltre nel nome di ciò che ci oltrepassa, e oltrepassare il nome stesso – inventare questo nome, firmare con un’altra firma, ogni volta in un modo unico, irrepetibile, ma anche nel nome di un nome ricevuto in eredità, se ciò è mai possibile”. (3) Per far ciò non esistono regole: assimilare un’eredità, in questo caso, non vuol dire semplicemente derivare ma ri-fare, in maniera nuova. Ciò implica uno smontaggio, una disarticolazione del lascito nei suoi elementi primari - ed eventualmente la sua successiva ricomposizione. Ciò che è in gioco, oggi, nell’eventuale ripresa di questo
dispositivo annunciativo, è l’ostinarsi di uno sguardo dove sembra non accadere niente, la paradossale sutura di temporalità e spazialità incompossibili, unificate e sdoppiate allo stesso tempo in breve, la messa in scena di un’impossibilità.
E’ quanto abbiamo intravisto o voluto veder profilarsi nelle opere in mostra.
Serge Domingie, Senza titolo, 1993 vista dell’installazione a Villa Motalvo (Campi Bisenzio)
Un’immagine fotografica, indipendentemente dalla sua compiutezza, si costituisce sempre come risultato di un prelievo da una totalità più vasta o, detto altrimenti, lo sguardo responsabile della sua nascita suscita comunque un fuori-campo; risultato di un duplice gesto, allo stesso tempo, d’esclusione e d’elezione, un’immagine -pittorica o fotografica che sia- non può essere divisa in parti senza cambiare natura ed ogni ritaglio successivo; ogni prelievo dal totale, reiterando il gesto d’origine, diviene tappa di un progressivo processo di de-contestualizzazione, e di deterritorializzazione. Proprio perciò, nella sua duplice veste di dettaglio e simbolo,
Senza titolo di Serge Domingie svolge il ruolo di soglia dell’esposizione.
Ingrandimento di un particolare dell’
Annunciazione (1438-1440) di Filippo Lippi in San Lorenzo a Firenze, l’opera di Domingie, non cattura il nostro sguardo come una qualsiasi fotografia ma, in maniera più complessa, lo attira per respingerlo verso l’esterno.
“Partie d’une figure, d’un objet ou d’un ensemble”, ciò che la lingua italiana definisce con il termine di
particolare, il dettaglio “est un
lieu du tableau; peint en même temps que le tout” proprio perciò, precisa Daniel Arasse, (4) “il ‘fait retour’ au tout, il le présuppose”.
La foto di Domingie, infatti, non recide completamente i rapporti con il totale da cui deriva; nel dettaglio permangono tracce di ciò che è sparito, potremmo dire che in questa, più che in altre foto, quello che non c’è (più) costituisce l’opera allo stesso titolo di quanto in essa è presente; in ciò risiede, forse, il suo carattere enigmatico, che non nasconde ma rivela il suo essere frammento di un’immagine preesistente e, contemporaneamente, affermazione di una nuova relazione con il fuori.
Il dettaglio, continua Arasse, “est aussi quelque chose qui fait écart, qui est dé-coupé ” e “en tant que tel il suppose un sujet” (“celui qui peint ou celui qui regarde”) qui “dé-taille”. A differenza del
particolare, “plus qu’une partie” d’un tableau, “il est un ‘moment’ de sa réception comme il peut l’avoir été de sa création”. In quanto tale il
dettaglio produce una dislocazione della composizione e dello sguardo “un arrêt à une distance rapprochée qui dérange la perception
de loin et d’ensemble d’une certaine peinture”. Il dettaglio tende a “sortir de sa place”, a scartarsi dall’insieme nella misura in cui invita lo sguardo ad avvicinarsi pericolosamente al quadro e “à faire abstraction de la vision que la totalité de la composition devrait produir”.
Evidente emblema del corpo di Maria al momento dell’Incarnazione -poiché attraversato dalla luce senza essere scalfito- il vaso trasparente dipinto da Lippi nel proscenio dell’Annunciazione,ingrandito e portato in primo piano, diviene il soggetto unico dell’opera fotografica di Domingie.
Posizionato tra l’Angelo e la Vergine, quest’ultimo è alloggiato in una nicchia scavata sulla sua misura, sul bordo di una di quelle scatole sceniche che nella pittura del 400 accolgono e delimitano le sacre rappresentazioni, trovandosi dunque simultaneamente all’interno e all’esterno del luogo dell’annunciazione, “tra il limite estremo dello spazio rappresentato… e il bordo ultimo dello spazio di presentazione” (Marin). Il vaso sembra così “trasgredire virtualmente l’impenetrabilità della superficie dipinta” e, dando figura a un attraversamento di questo confine, ci invita, per così dire, a penetrare la rappresentazione.
Megan e Murray Mc Millan, note per la realizzazione di While She Waits for the Light, 2009 Carlo Crivelli, Annunciazione con Sant’Emidio, 1486
Se l’opera di Serge Domingie, si offre come un ritaglio, un dettaglio emblematico di un’opera capitale della storia pittorica delle
Annunciazioni, il video
While She Waits for the Light, 2009, (5) di Megan e Murray McMillan si propone esplicitamente come una sorta di riscrittura contemporanea dell’
Annunciazione con Sant’Emidio di Crivelli.
Secondo Arasse (6) sono molti i pittori che, pur ritenendo che la prospettiva sia incapace di raffigurare il mistero dell’Incarnazione, non rinunciano a servirsene proprio con lo scopo di introdurre all’interno della sua griglia puntuali anomalie che pur non contraddicendo la logica proporzionale della sua misura costituiscono dei segni capaci di mostrare l’inadeguatezza del dispositivo prospettico a figurare l’azione della Trascendenza all’interno della
historia.
L’
Annunciazione dipinta nel 1486 da Carlo Crivelli costituisce uno degli esempi più brillanti di questa pratica. E’ a quest’opera che si inspirano dichiaratamente Megan e Murray McMillan con un video che mostra, attraverso un modulo prospettico appositamente costruito, la successione delle varie tappe della devoluzione spazio-temporale dell’
Annunciazione anche e soprattutto in riferimento alla questione cruciale della luce.
Nella complessa costruzione dell’opera, che unisce in uno due episodi, dell’
Annunciazione e dell’attesa della bolla papale che proclama la liberazione della città di Ascoli Piceno, Crivelli adotta una prospettiva centrale, ‘deviata’ a sinistra, scelta che non implica un decadimento delle regole geometriche, perché tutto avviene come se il quadro fosse stato privato, sul lato sinistro, di una porzione spaziale simile a quella di destra, mantenendo, così, una visione ineccepibilmente monocentrica, anche se non centrata rispetto all’asse del quadro.
Con le sue direttrici prospettiche che ci trasportano velocemente verso il fondo, il dipinto inscena una vertigine ottica, che pare contraddetta dall’intervento divino: un raggio d’oro che giungendo da una nuvola sembra appoggiarsi sulla superficie pittorica. Questa tradizionale figurazione dell’intervento divino “contraddice esplicitamente la logica delle apparenze costruite grazie alla prospettiva”. Crivelli posiziona infatti “il punto di fuga geometrico di quest’ultima esattamente sulla verticale del punto di partenza del raggio divino, fissando così i due poli contraddittori tra i quali si gioca la venuta dell’Irraffigurabile nella figura; mentre le linee di fuga convergono dal proscenio verso il fondo e da destra verso sinistra, attirando irresistibilmente lo sguardo verso il punto di fuga, il raggio d’oro instaura un movimento esattamente contraddittorio dal fondo verso il primo piano e da sinistra verso destra”. Un duplice contraddittorio movimento che introduce una sorta di lieve ma percepibile frattura per così dire suturata nell’unitarietà della rappresentazione.
Sulla
mise en scene di un analogo ma più evidente contromovimento gioca anche il video dei McMillan.
Megan e Murray McMillan, While She Waits for the Light, 2009
Un’inquadratura immobile mostra un uomo che si muove in quella che pare essere la vetrina di un negozio, stipato di lampade, da terra al soffitto, per recuperare prima uno e poi un altro esemplare fuori uso; l’uomo attraversa la scena sino al suo margine sinistro, ripercorre poi il cammino in senso inverso, recupera l’altro esemplare e torna sui suoi passi: solo allora la camera lo segue, svelandoci il senso della precedente azione: l’uomo ha recuperato le lampade spente per passarle da un’apertura laterale (precedentemente invisibile) ad una donna che all’interno di uno stretto corridoio bianco e vuoto, le impila l’una sull’altra e le accende per poi sedersi a terra in attesa… tutta l’azione è sottolineata da un coro che canta l’inno religioso
Send the Light [1890]. La scena, almeno a giudicare dall’inquadratura che mostra ora in sezione i due spazi contigui ma separati da una parete, è non solo una scenografia, priva della quarta parete frontale, ma anche una macchina teatrale. Infatti, subito dopo che la donna vestita di bianco si siede, il fondo del corridoio inizia ad arretrare lentamente sotto il nostro sguardo, allungandosi come un cannocchiale, sino a rivelare un'apertura sul lato sinistro, omologa a quella precedentemente scoperta sul destro, da cui entra una luce bianca; a quel punto la donna si alza e va verso le lampade impilate, prende la prima, mentre la mdp. con un movimento analogo al precedente mostra lo spazio contiguo oltre la parete del corridoio che ora, visto da fuori, si rivela chiaramente un set, esternamente non rifinito, contenuto in un ambiente più grande -illuminato da una luce naturale, che spiove da un grande lucernario- un ambiente al cui margine un uomo e una donna sono seduti in conversazione ad una scrivania; dall’apertura nel corridoio, vista ora dall’esterno, le mani della donna porgono la lampada: mentre quest’ultima sporge dall’apertura il coro termina e il film si interrompe bruscamente.
A interessare gli artisti, infatti, più che la conclusione pare essere il percorso luminoso attraverso le tre spazialità scenografiche. Il video sembra, dunque, far proprio il contromovimento che il raggio divino inscrive diagonalmente nella pala di Crivelli, facendo parzialmente da contraltare alla fuga prospettica delle architetture. Ciò che nel quadro avviene sulla bidimensionalità della superficie pittorica qui è inscritto nello spazio scenografico: la luce che lì procede linearmente dalle nuvole verso la Vergine appoggiandosi sulla superficie dipinta qui attraversa materialmente in senso antiorario tre diversi ambienti raccontando la triplice spazialità del quadro.
Possiamo infatti ipotizzare che il dispensatore di luce -qui fortemente laicizzato- funga da contraltare alla nube divina, da cui diparte il raggio, lo stretto corridoio bianco in cui si infiltra la luce naturale come analogo del vicolo della pittura di Crivelli e, infine, l’ufficio in cui conversano l’uomo e la donna come la
domuncola di Maria che nella pittura è rappresentata metaforicamente da un sontuoso palazzo. Nel video il procedere innaturale della Luce (lampada) da destra verso sinistra e la complessa spazialità dell’insieme -non offertaci immediatamente nella sua totalità, ma rivelata progressivamente dal movimento della mdp.- ritardano la nostra comprensione, costringendoci non a contemplare il percorso della luce ma, in un certo senso, a ‘compierlo’ visivamente.
Il passaggio dal divino al terrestre pare qui configurarsi, inoltre, come una sorta di passaggio senza soluzione di continuità dall’artificiale al naturale: mentre i gesti dei protagonisti delle due prime stazioni appaiono impeccabili e un po’ rituali quelli dei protagonisti dell’ultima appaiono naturali e privi di qualsiasi coreografia. È un po’ come se il video, che inverte e in un certo senso orizzontalizza il percorso della luce (che qui, diversamente dalla pala di Crivelli, non segue più un così vertiginoso percorso dall’alto in basso) laicizzasse il mistero dell’evento in linea con le successive e più moderne raffigurazioni del tema. Pensiamo alla pittura successiva ma anche a certe riprese cinematografiche che giungono sottotraccia sino a Pasolini e a Godard.
Massimo Bartolini, untitled, 1998, wood and glass door, neon 205x120x9
Il ruolo giocato dalla porta nella figurazione delle
Annunciazioni pittoriche del 400 e 500 si rivela centrale, a partire da quella chiusa di Domenico Veneziano, (7) a quella quasi spalancata di Masolino (8) a quella dell’Angelico nell’Armadio degli argenti di cui resta solo l’apertura… ma basta sfogliare L’Annunciazione italiana di Arasse per rendersi conto della centralità simbolica di questo motivo sia in riferimento alla Vergine Maria indicata spesso come porta chiusa, sia come simbolo della divinità sia, più in generale, come soglia, che separa e mette in comunicazione spazi diversi; è in quest’ultima accezione che muove la straordinaria ‘porta di luce’ realizzata per la mostra da Massimo Bartolini, replica o rifacimento di quella realizzata dall’artista per la sua personale a Casa Masaccio nel 1998. (9) Reinstallata nello stesso luogo essa si presenta infatti come una soglia interna che mette in comunicazione lo stretto corridoio d’ingresso, con le stanze al primo e secondo piano. In occasione della ricordata mostra la
porta di luce faceva da sfondo a quattro sculture di modeste proporzioni, che si stagliavano su di essa come su un fondo oro della pittura trecentesca, in un’operazione tesa a fondere spazio e superficie, icona ed installazione. Il modellato pittorico delle sculture richiamava insistentemente le montagne di Giotto o dell’Angelico è, dunque, non casuale che uno di questi esemplari, oggi assenti nel corridoio d’ingresso abbia trovato una adeguata collocazione nel Museo della Basilica proprio ai piedi dell’
Annunciazione dell’Angelico.
La porta di luce, rimasta sola a chiudere lo stretto corridoio di Casa Masaccio, sembra così inscenare l’apparire della propria epifania. Lasciando trasparire una forte luce gialla essa attira insistentemente lo sguardo, come una promessa, invitandoci ad un oltrepassamento, che si rivelerà presto deludente ma, forse proprio per questo, capace di indurre alla riflessione. Dietro non c’è altro che uno spoglio ambiente in penombra. Solo al momento del passaggio ci rendiamo conto che la luce non filtra da dietro ma è un attributo intrinseco della porta stessa. È infatti proprio in quanto porta e non in quanto simbolo o veicolo di una luminosità mistica che l’opera di Bartolini si rivela luminosa e promettente.
È come se l’artista ci suggerisse di prestare attenzione al miracolo della porta più che alla porta del miracolo, ci invitasse a riflettere sul ‘che cosa’ la Porta sia più che su ‘dove’ conduca. Stando naturalmente in rapporto con le azioni di separare e collegare, la porta è “la forma unificante di queste due azioni contrapposte”, ciò che ce le fa percepire come le “due facce dello stesso e medesimo atto”, ciò che mette in comunicazione e unifica esterno e interno, senza essere ‘fuori’ o ‘dentro’; “ciò che limita ‘senza limiti’ limitato ed illimite, i quali trovano in essa “la possibilità di uno scambio continuo e reciproco”.
Proprio nel sottile gioco di assonanza e distanza che unisce e separa
Limen (soglia) e
Limes (confine) è custodito il carattere ontologicamente determinante della Porta: il suo essere ‘limite valicabile’. (10)
Che porta e luce siano due elementi ricorrenti nell’opera di Massimo Bartolini è mostrato anche da altre opere che a questa appaiono riconducibili, ad es. l’installazione site specific realizzata al Man di Nuoro nel contesto della mostra
Catastrofi minime. (11) Qui una porta priva di infissi, ridotta ad una semplice apertura lasciava filtrare una luce proveniente da una ambiente vuoto e perfettamente illuminato, ma reso inaccessibile non da un qualche ostacolo materiale ma, paradossalmente, da una seconda apertura posta decisamente fuori asse rispetto alla prima, un’apertura disassata che interdiceva ogni accesso, salvo quello visivo che, peraltro, concedeva allo sguardo solo una visione parziale dell’ambiente.
Anche in quel caso aura della luce e inaccessibilità contribuivano a farci riflettere sul senso stesso dell’apertura come passaggio. In questi come in altri casi l’opera di Massimo Bartolini conduce non ad una meta ma ad una sorta di sospensione del senso. Spesso, infatti, il potere perturbante dalle installazioni dell’artista non scaturisce da un
in più ma, se è possibile dir così, da un
in meno di presenza, esse non colmano alcun vuoto ma, all’opposto, istituiscono un
deficit, nel troppo-pieno del mondo: privata progressivamente di ogni attributo artistico, l’opera tende a scomparire ma, nel dissolversi, rende visibile un’assenza, proprio come un oggetto, restato immobile per molto tempo in un luogo, quando venga rimosso.
Lungi dal condurre alla formalizzazione di un oggetto le operazioni di Bartolini producono uno spaesamento fisico e mentale che richiama quello delle sovrapavimentazioni che inglobano al proprio interno gli arredi di una stanza; nelle sue installazioni, infatti, il contenente diviene contenuto ed il contenuto contenente: ciò rende possibile la trasformazione dello spettatore in un protagonista che si trova, contemporaneamente,
di stanza nell’opera e a
distanza da essa proprio perché
d’istanza circa il suo senso.
Daniela De Lorenzo, Lei, 2002
Non tutti i lavori esposti, a cominciare dalla
porta di luce di Bartolini, mantengono uno stretto legame con il tema dell’
Annunciazione, intento dell’attuale mostra, infatti, non è tanto quello di chiudere le opere in un’interpretazione univoca quanto piuttosto quello di mostrare come esse si lasciano attraversare dal tema senza pretendere di esaurirlo o di esserne esaurite, anche quando non siano state pensate esplicitamente in relazione ad esso. Crediamo infatti che ciò che si realizza emerga sempre da uno sfondo di opacità, che avrebbe potuto illuminarsi anche altrimenti.
Cercheremo di chiarire questa posizione a partire da
Lei, un dittico fotografico di Daniela De Lorenzo. Chi conosca l’opera dell’artista, può con estrema facilità riconnettere ciascuna delle foto che lo compongono -soprattutto se guardate separatamente- a due tappe di quella serie di autoritratti ‘mancati’ che accompagnano la sua ricerca: niente, dunque, di più lontano, almeno apparentemente, da un’
annunciazione. In questo caso, però, l’artista ha pensato l’opera come un dittico: con questa semplice mossa l’assolutezza del soggetto di partenza viene, in qualche modo, a perdere quell’unicità che solitamente accompagna un autoritratto, per guadagnare formalmente un’intensità di altro tipo che fa immediatamente pensare alla fusione senza confusione di due elementi. Il risultato è che le figure non appaiono più semplicemente compresenti ma, senza reintrodurre una ‘storia’, entrano in
risonanza delineando una specie di
diagramma, le cui linee rimbalzano dall’una all’altra. Una scena assente pare accomunarle senza contraddire il loro isolamento; le figure restano separate, ciò nonostante, il loro accostamento implica un ritmo, che genera l’impressione di un tempo comune: pur nella loro staticità entrambe le figure mantengono un residuo di dinamismo: una pare sollevarsi e l’altra precipitare, mentre restano entrambe in ostaggio di un’immobilità che produce uno strano fenomeno di ricomposizione, di ridistribuzione dell’insieme.
Come in un’
annunciazione siamo posti di fronte a una riunione che separa ad una temporalità ferma, spazializzata, che richiama uno
stallo tensivo, un
dinamismo statico. Le due foto restano separate senza essere più isolate, i bordi dell’una, infatti, non rinviano più all’unità limitativa di ciascun pannello, ma all’unità distributiva dei due: qui la cesura viene a porsi come l’equivalente della colonna che separa lo spazio della vergine e dell’angelo nelle annunciazioni fiorentine del 400. Sicuramente non è a questo che pensava l’artista al momento della realizzazione ma qualcosa di questo rimando permane nell’immagine stessa come una sorta di warburghiana
sopravvivenza, come involontaria memoria di una figura della storia dell’arte.
Luca Rento uncentimetrocentoanni, 12 gennaio 2010 14.20.00 videoinstallazione alla Pieve di San Giovanni Battista
Generalmente costituiti da un’unica inquadratura, i video di Luca Rento, tendono a sovrapporre, sin quasi a farle coincidere immagine statica e dinamica. La persistenza di un’immagine fissa all’interno di un film o di un video produce, come ricorda Bellour, un turbamento particolare, perché “senza smettere di svolgersi al suo ritmo, il film sembra fissarsi, sospendendosi”, come se nella visione due tempi si mescolassero “senza mai confondersi”. (12) E’ questo perturbamento temporale, questa staticità continuamente evocata e continuamente -sia pur impercettibilmente- mancata, a portare in primo piano una durata la cui muta reticenza non cessa di interpellarci.
Tutta giocata nell’abolizione del confine che separa immagine della realtà e realtà dell’immagine, l’opera di Rento custodisce la seduzione che emana dalla visione di una ripresa video che pare catturata dalla staticità della pittura, come mostra esemplarmente
uncentimetrocentoanni,12 gennaio 2010 14.20.00 dove pare non accadere nulla ma in cui la solitaria figura dell’artista immobile e per così dire ‘esposta alla svista’ all’interno di una grotta che pare uscita da una pittura seicentesca, sembra cedere il ruolo di protagonista al cadere di una goccia, la cui azione, in tempi incomparabili con quelli della vita umana, è responsabile del formarsi delle straordinarie architetture naturali che attorniano la figura. Nella sapiente costruzione dell’immagine che, come una sorta di laica
Annunciazione separa e mette in relazione due temporalità divergenti, la presenza della goccia e quella dell’uomo paiono elidersi a vicenda: se concentriamo la nostra attenzione sulla figura meditabonda riusciamo difficilmente a cogliere l’evento della goccia, se invece ci concentriamo su quest’ultima risulta arduo cogliere la presenza umana. Parafrasando Agamben potremmo dire che l’operazione di Luca Rento non mira a inserire “le immagini nel tempo” ma “il tempo nelle immagini”. Il silenzio, la sospensione e le risonanze pittoriche che attraversano l’opera dell’artista scaturiscono da una precisa strategia espressiva volta ad indagare, come sottolinea Luigi Fassi, il sottile disagio emotivo dell’uomo contemporaneo, fungendo da provocazioni cognitive, atte a spiazzare lo spettatore per coinvolgerlo in una rinnovata dimensione meditativa.
Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla, Deadline, 2007, frame dal video.
Dead Line (2007) di Allora & Calzadilla è un video muto, costituito da un’unica inquadratura, girato a San Juan, Porto Rico sulla scia dei catastrofici danni prodotti dal passaggio dell’uragano
George. L’opera non ne mostra gli spettacolari effetti distruttivi ma indugia su due palme e una fronda caduta, rimasta accidentalmente sospesa a mezz’aria fra di esse.
Le silhouette scure delle palme e della fronda lievemente ondeggianti che si stagliano in controluce sull’azzurro del cielo acquistano una sorprendente presenza, insieme fisica e pittorica.
La fronda mossa dal vento continua a ondeggiare avanti e indietro, librandosi tra la vita e la morte: l’azione pare svolgersi fuori dal tempo, declinarsi secondo il modo spersonalizzante dell’infinito.
Da una rigorosa economia di mezzi e dall’ostinato indugiare di uno sguardo dove sembra non accadere niente scaturisce una sorta di epifania visiva: la dimensione temporale propria del video permette, infatti, a un’inquadratura fissa come una foto di ‘respirare’. L’immagine ritrova, così, improvvisamente, tutto il suo spessore, ipnotizzandoci.
La reiterazione della oscillazione, sommandosi alla messa in
loop dell’immagine, produce una sorta di
incantamento dell’evento, un mo(vi)mento che, non cessando di finire, non finendo di iniziare, ricade
interminabilmente in se stesso, continuando a svolgersi in una sorta di fuori-tempo, una lacuna temporale che implica una cronologia che non accumula, non inscrive, non si totalizza, un tempo in-finito che, proprio come in un’annunciazione, trasforma insensibilmente una
sospensione della narrazione nella
narrazione di una sospensione.
Il rimando alla temporalità in stallo delle
Annunciazioni non dovrebbe risultare pretestuoso, dal momento che in molte variazioni pittoriche del tema l’iconografia legata alla palma associa, mediante una sorta di acrostico temporale la morte e la redenzione in un’unica figura.
Carolina Saquel Reconstitution du jardin delectable, 2008, Hdv, color, stereo sound, 9’38” frames dal video.
Tanto la ripresa di
Dead Line appare statica quanto quella di
Reconstitution du jardin delectable di Carolina Saquel in continuo movimento, le due dimensioni però non sembrano opporsi ma in un certo senso proporsi l’una come il rovescio dell’altra:
Reconstitution… sembra infatti voler mostrare qualcosa che, fatalmente, appare solo attraverso il suo distanziarsi.
L’opera apre con una
steadycam già in movimento, intenta ad avanzare in soggettiva procedendo fra la vegetazione incolta di un giardino, figura topica e variamente declinata in molte
annunciazioni. Nuovi ma sempre simili elementi punteggiano il suo sinuoso percorso in questo
hortus conclusus mentre comparendo e scomparendo ai suoi bordi il ripetersi di motivi contribuisce a destabilizzare il nostro senso d’orientamento, al punto che in certi momenti non sappiamo più se stia ancora avanzando o se sia ritornata sui propri passi. La meta resta ostinatamente al margine dell’inquadratura confinata in uno sfondo inarrivabile. Il verbo
glissare (nella duplice accezione di
scivolare e passar oltre) descrive efficacemente il movimento di una mdp. che non conducendo ad alcuna meta pare autoannullarsi: più che il progressivo avvicinamento a qualcosa il film sembra mettere in scena il suo rovescio, nonostante ciò, o forse proprio per questo, l’immagine acquista una tale densità e un tale spessore che ci rinvia, con un gesto molto modernista, alla nostra condizione di spettatori.
Ad assurgere a ruolo di protagonista, non è tanto il giardino quanto lo soggettiva di uno sguardo che, nel suo scivolante arabesco di sorvolo, sembra inscenare quello dell’angelo annunciante.
Kim Sooja, An Album: Havana, 2007, single channel video, 6:57, silent, frames dal video.
An Album Havana di Kim Sooja, è un video realizzato in un’area lungo la costa dell’Havana, dove molti cubani sono soliti sostare, protagoniste dell’opera non sono però le persone, ma sagome intenzionalmente sfumate che progressivamente diventano sempre più astratte fino al punto di svanire e non lasciare altro che il passaggio della luce e del tempo. A caratterizzare l’opera di Kim Sooja è la presenza della sfocatura, un
flou statico e uniformemente spalmato su tutta l’immagine che, come un velo di garza, fa da filtro allo sguardo. La sfocatura induce una perdita sia del dettaglio che del contesto, conferendo al soggetto una certa irrealtà; una sorta di messa a distanza attuata tramite il rifiuto di quella nettezza e di quel realismo generalmente associati alla fotografia e al cinema.
An Album Havana manifesta l’interesse di Kim Sooja per quel che potremmo definire la
soglia della visione, una
soglia che collocandosi in una dimensione logicamente anteriore ad ogni determinazione sembra far retrocedere l’immagine sino allo stadio del suo annunciarsi, quando sembra ancora capace di mantenere intatte tutte le potenzialità che saranno negate dalle successive e diverse attualizzazioni.
Nelle mani di Kim Sooja la cinepresa non è più lo strumento della vista e del sequestro delle apparenze sensibili immediate ma quello dell’esplorazione di altri modi di percezione e di apprendimento del reale.
Regolando l’obbiettivo in modo che niente risulti troppo visibile Kim Sooja interroga l’immagine cinematografica conducendola fino alla soglia dell’astrazione.
Mostrandoci la prossimità di ciò che appare a distanza e la lontananza di ciò che appare prossimo Kim Sooja ricollega tra loro i vari aspetti del reale, rivelando la loro reversibilità e il loro carattere comune. Sorta di corrispettivo dell’
insapore (13) lo
sfocato di Kim Sooja ha il merito di farci accedere al fondo comune della visione, mostrandoci la reversibilità di figura e fondo di visibile e invisibile.
Ruth Scott Lashing, 2008, frames dal video.
Lashing video di Ruth Scott mostra unicamente il frenetico sbattere di ciglia su un bianco foglio di carta, ciglia intrise di grafite che si sforzano di lasciare un segno, che raschiano sulla carta costringendo il corpo ad una prestazione innaturale, che si ripercuote sul respiro affannato dell’artista. L’inquadratura stretta e statica seziona obliquamente solo una porzione del volto: un occhio, una parte del naso, qualche ciocca di capelli, i pori della pelle, mentre il sonoro intercetta gli sforzi della performance accompagnati da alcuni rumori fuori campo. Non conosciamo la posizione del corpo, non sappiamo se l’artista, direttamente impegnata nell’azione, sia posizionata sdraiata o verticale, vediamo solo il lavoro delle sue ciglia, il roteare dell’occhio che cerca di vedere ciò che non può vedere, qualche sparuto capello che, nello sforzo, entra in campo, mischiandosi al segno di grafite: l’occhio rotea, la testa si sposta leggermente per cercare di occupare un nuovo più largo campo di applicazione per tracciare e ritracciare il segno del battito sul foglio bianco. Qualche leggera improvvisa sfocatura dell’immagine testimonia il rigido campo della messa a fuoco, pregiudicato dai minimi spostamenti della testa, ancora il respiro affannato, ancora un roteare della pupilla come se si trattasse di allontanare la prossimità dell’azione per cercar di vedere ciò che le ciglia stanno tracciando, come se l’occhio cercasse di fuoriuscire da se stesso per cercare di vedersi guardare, e, infine, il repentino liberatorio sollevarsi della testa, per vedere e lasciar vedere il risultato, per scoprire ciò che è restato.
Lashing di Ruth Scott mostra l’impossibilità costitutiva del soggetto dello sguardo di trascendersi per ricollocarsi nello spazio della figura. Il paradossale punto di partenza dell’artista sembra costituirsi dunque come uno sforzo impossibile teso ad abolire quella cornice -limite fondante- attraverso cui soltanto, il mondo accade in figura.
Emanuele Becheri, Glas, frames dal video.
Offrendoci un’immagine vuota ma capace di internare frammenti di
invisto (che lasciano tracce nella visione)
Glas di Emanuele Becheri si colloca ai limiti della percezione. L’artista ce ne fornisce le coordinate: “
la telecamera abbandonata a terra deposta in verticale contro il cielo. Sopra di lei, a distanze diverse restano impressionate su un singolo fotogramma delle rondini che volteggiano a velocità straordinaria”. Questo il contesto della ripresa ma l’opera, in bianco e nero, mostra tutt’altro: una inquadratura persistentemente vuota e grigia, priva di qualsiasi riferimento (né colore né tracce di nubi), che sembra realizzata appositamente per sollevare le domande dello spettatore,
sappiamo che si tratta di un cielo monocromo, potremmo forse anche intuirlo dal lampeggiare di rare e fugaci apparizioni di forme volatili che, nitidamente a fuoco o leggermente sfuocate, perfettamente centrate o decentrate, perturbano per un istante la sua vuotezza, resa ancor più abbacinante dalla totale assenza di sonoro. È infatti sufficiente distrarsi per un 24esimo di secondo per mancare l’appuntamento con l’immagine. Il risultato sembra un effetto di montaggio ma non lo è. “
Questi fulmini -sottolinea l’artista-
non sono immediatamente riconoscibili, restano delle figure astratte”: a-ritmiche maculazioni subliminali sul monocromo luminoso di uno schermo che pare coincidere tautologicamente con la luce del proiettore. “
In francese Glas …
indica il rintocco funebre delle campane a morto. Mi pareva appropriato per tautologizzare questo passaggio a vuoto del segno che, rintocca proprio per ‘certificare’ l’inevitabile ritardo che lo contraddistingue; si può dire che il segno, come spesso accade nel mio lavoro, manchi sempre al proprio posto”. (14)
Proprio a causa di questa ‘mancanza’ l’opera sembra sottrarsi alla vista, così come ad una qualsiasi forma di documentazione. Ogni ipotetico tentativo di restituzione fotografica del video sembra infatti implodere per eccesso o difetto, tradendo così l’esperienza della visione diretta: se l’immagine documentaria restituisce il luminoso fondo grigio, viene a mancare la pulsazione ritmica che ne perturba la vuotezza, se invece ipostatizza l’icona, resta orfana dell’effetto della sua sparizione. La traccia visuale del fulmineo passaggio sembra, in ogni caso, eccedere il dominio di una presenza che si vorrebbe semplice e piena, senza opacità e senza vuoti. Nella ripresa video di Becheri, l’icona si manifesta solo al prezzo della sua sparizione, del suo immediato trasformarsi in traccia evanescente. In
Glas ciò che vediamo come una sorta di baluginio è, come mostrerebbe il programma
final cut, se potessimo visionare il video invece di assistere semplicemente alla sua proiezione, una vera e propria icona che si mostra però unicamente nell’atto della propria scomparsa; l’opera è strutturata in modo tale che l’icona possa aver luogo solo a patto di non aver luogo. È necessario che nel video essa appaia senza apparire, si annunci senza presentarsi, sia avvertita come tale senza che sia avvertita come tale, bisogna insomma, che la sua apparizione sia ricordata e obliata, sia in un certo senso
subliminale.
Glas richiede la sopportazione di questa aporia, la venuta di questa impossibilità. Ciò che qui è in questione non è tanto l’impossibilità dell’
opera tout-court quanto quella della sua
fenomenalità se per fenomenalità si intende l’apparire di un
presente che si sottomette a una percezione diretta, a una appropriazione.
A Becheri non interessa, infatti, mostrare l’impossibilità di un’esperienza ma l’esperienza di un’impossibilità.
Con l’impraticabile afferramento dell’immagine che, ribadiamo, non è il risultato di un
effetto ma di un’
estetica della sparizione, l’artista ci mostra, tramite la trasformazione della
vista in
visione e dell’
apparenza in
apparizione (15) che non esiste esperienza pura, piena e senza vuoti; ci fa vedere che, a determinate condizioni, c’è dell’irrappresentabile in ogni immagine.
Proprio perciò si può e si deve parlare di una esperienza dell’impossibile: dell’impresentabilità, dell’evenemenzialità dell’opera vi è - vi deve essere esperienza (una esperienza senza appropriazione, senza afferramento diretto). Senza questa esperienza, l’impossibile dell’opera, non sarebbe che una impossibilità assoluta. Come sosteneva Baudrillard bisogna che nella realtà dell’opera qualcosa scompaia ma è necessario che questa sparizione resti viva.
Glasha il merito di ri-velarci, che la ricerca di EB è, sin dall’inizio, sorretta da una sorta di logica aporetica dell’impossibilità.
Note
1 La mostra, a cura di Saretto Cincinelli, Cristiana Collu, Alessandro Sarri, dislocata in tre diverse sedi espositive (Casa Masaccio, la Pieve di S. Giovanni Battista e il Museo della Basilica di S. Maria delle Grazie) proponeva opere di Allora & Calzadilla, Massimo Bartolini, Emanuele Becheri, Elie Cristiani, Daniela De Lorenzo, Serge Domingie, Kim Sooja, Yaron Lapid, Megan e Murray Mc Millan, Noelle Pujol, Luca Rento, Carolina Saquel, Ruth Scott. Il relativo catalogo ospitava oltre al testo Quomodo qui riproposto con leggere modifiche, anche testi del co-curatore Alessandro Sarri e di Michela Martini, direttrice del museo di Santa Maria delle Grazie.
2 Quomodo, [com’è possibile?] è la domanda incredula che Maria rivolge a viva voce all’angelo dopo aver ricevuto l’annuncio.
3 Jacques Derrida, Scegliere la propria eredità, in: J. Derrida, E. Rudinesco, Quale domani?, Torino, Bollati e Boringhieri, 2004.
4 Daniel Arasse, Le Détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture, Paris, Flammarion, 1996 [1992].
5 While She Waits for the Light, è composta da un video a canale singolo, due fotografie e una videoinstallazione site-specific.
6 Daniel Arasse, L’Annunciazione italiana, Firenze, 2009
7 Domenico Veneziano Annunciazione , 1445 ca, tempera su tavola, Cambridge, Fitzwilliam Museum
8 Masolino da Panicate, Annunciazione, 1425-1430, Whashington, National Gallery of Art
9 Massimo Bartolini a cura di Rita Selvaggio, Casa Masaccio, San Giovanni Valdarno, 1998
10 Per le varie citazioni contenute in questo paragrafo Cfr G.Simmel, Ponte e porta, in; Saggi di estetica a cura di M. Cacciari e L.
Perucchi, Padova 1970, pp. 3-8 e Marco Biraghi, Porta Multifrons, Sellerio, Palermo, 1992
11 Catastrofi minime, a cura di Cristiana Collu, Fernando Castro, Saretto Cincinelli, Man, Nuoro, 2003
12 Raymond Bellour, Lo spettatore pensoso, in: Fra le immagini Bruno Mondadori, Milano, 2007
13 Il riferimento è qui a Francois Jiullien, Elogio dell’insapore, Milano, Cortina, 1991
14 Intervista a Marinella Paderni, Flash Art, marzo 2010
15 Cfr. J. Lyotard, Anima Minima, Pratiche, Parma, 1995