Patrizia Sandretto Re Rebaudengo
In Dialogo con
Hans Ulrich Obrist
Hans Ulrich Obrist — Sono molto emozionato
per questa conversazione: siamo qui insieme
e vogliamo “prendere il sole a Torino” come
Alighiero Boetti. È il trentesimo anniversario
della tua collezione e anche quest’anno
hai organizzato la grande cena durante Artissima,
un appuntamento al quale non sono mai mancato.
Tarkovskij diceva sempre che abbiamo bisogno
di rituali e la tua cena è un rituale annuale. Vorrei
cominciare con gli inizi-inizi e sapere come sei
arrivata all’arte.
Credo che le epifanie siano sempre
molto interessanti. La mia, per esempio, è arrivata
quando sono entrato per la prima volta nella
Kunsthaus di Zurigo. Avrò avuto undici o dodici anni:
da subito sono stato ossessionato dalle figure long
and thin di Alberto Giacometti. Sono state per me
una sorta di portale.
Vorrei sapere qual è stato
il tuo inizio.
Patrizia Sandretto Re Rebaudengo — Collezionare è parte
della mia identità e della mia storia: mia mamma
collezionava porcellane di Meissen e di Sèvres
e, forse per imitarla, da ragazzina raccoglievo
scatoline portapillole. Registravo su un quaderno
l’ingresso di ogni nuovo pezzo, scoperto nei
mercatini dell’antiquariato. Ero decisamente
sistematica.
Poi, negli anni Ottanta, mi sono
appassionata all’American costume jewelry
e ho iniziato a collezionare bijou realizzati
a partire dagli anni Venti del secolo scorso.
Amo molto i miei gioielli fantasia e ogni giorno
indosso un pezzo diverso che si abbina con
il mio umore e la mia agenda. Dopo la laurea
in Economia e commercio ho lavorato
nell’azienda di famiglia.
L’arte contemporanea
è entrata nella mia vita grazie a una cara amica,
Rosangela Cochrane. È con lei che ho fatto
il mio primo viaggio d’arte, a Londra nel 1992,
l’anno di nascita della collezione.
HUO — È una collezionista?
PSRR — A Torino, negli anni Sessanta, Rosangela
comprava Paolini, Manzoni, Twombly.
È una donna che ha sempre avuto una visione illuminata.
Siamo andate a Londra insieme
e mi ha portato alla Lisson Gallery, da Nicholas
Logsdail. Con Nicholas abbiamo visitato gli studi
di alcuni dei suoi artisti. La mia prima studio visit
è stata da Anish Kapoor.
HUO — La prima visita in studio è molto importante.
Per me è stata da un artista svizzero e la seconda,
subito dopo, da Peter Fischli e David Weiss.
Era il 1987 e stavano lavorando al film The Way
Things Go. Quando sono arrivato nello studio,
c’era un oggetto che cadeva mettendone in movimento
un altro. Una reazione a catena. Era così affascinante
che penso abbia proprio cambiato la mia vita.
PSRR — Anche per me la prima studio visit
è stata fondamentale. Mi ricordo tutto: il cielo
grigio, la giornata piovosa di maggio, l’ora
in auto per arrivare allo studio di Kapoor
e finalmente l’ingresso in un luogo sorprendente,
incredibile.
Nel loft immenso, mi apparve una
moltitudine di opere disposte a terra: un’infilata
di tante piccole sculture ricoperte di pigmenti
blu, rossi, gialli. I colori primari davano
alle loro forme un effetto vellutato e profondo.
È stata un’emozione indimenticabile. Le sculture
facevano parte del ciclo 1000 Names e le ho
ancora impresse negli occhi.
Poi Anish ha iniziato
a raccontarle e mentre parlava sembrava quasi che levitasse.
La sua energia era forte, palpabile.
In quel preciso momento ho deciso di diventare
collezionista. Così è iniziata la mia settimana
di incontri con gli artisti a Londra e la mia vita
dedicata all’arte.
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Cortile di Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — Hai incontrato anche Rachel Whiteread?
PSRR — Sì, l’ho conosciuta in quel periodo.
Da subito ho apprezzato il suo lavoro e ho
cominciato ad acquistare sue opere. La collezione
inizia proprio con quella generazione di artiste
e artisti. Alla fine di quella settimana londinese,
alla Lisson Gallery ricordo che Nicholas Logsdail
mi chiese: «Cosa ti è piaciuto? Cosa vuoi
comprare?». Ebbi la sensazione di precipitare
in un nightmare. «Cosa mi consigli?». Allora
Nicholas mi rispose: «Hai una testa, usa la tua
testa e compra quello che ti piace».
Le sue parole
mi hanno fatto capire che una collezione ha
bisogno di osservazione, di studio e di curiosità.
Ho realizzato che servono sia testa che cuore.
Quel giorno ho acquistato, fra le altre, due
sculture di Kapoor, di cui una della serie 1000
Names, insieme a un’installazione di Tony Cragg
e ad alcune opere di Julian Opie. I lavori di questi
tre artisti e di altri quindici sono confluiti nel
catalogo della prima mostra della collezione,
presentata in uno spazio industriale di mio padre,
vicino a Torino.
Si intitolava Arte inglese d’oggi ed
è poi stata allestita alla Galleria Civica di Modena.
HUO — Che anno era?
PSRR — Era il 1995. Tre anni dopo Londra.
HUO — In una conversazione con Ida Gianelli hai
spiegato che l’arte è stata un’avventura con la tua
generazione. Anche per me. Quando si comincia,
si entra in contatto con gli artisti più anziani ma a
un certo punto arriva quello della nostra stessa età.
Ricordo gli incontri con Rirkrit Tiravanija, uno dei
primi che ho conosciuto della mia generazione. E tu?
PSRR — I primi artisti che ho conosciuto –
a Londra, a Los Angeles, a Torino e nel mondo –
erano quasi tutti trentenni, come me. Infatti la mia
collezione è nata come collezione generazionale.
Ho la sensazione che se non avessi conosciuto
quegli artisti e quelle artiste probabilmente non
avrei iniziato a collezionare. L’amicizia, il dialogo
con loro nei loro studi, davanti alle opere, sono
stati decisivi. Quella che stai guardando è la prima
opera di Douglas Gordon entrata in collezione.
Si intitola 24 inch Practice Tightrope with Niagara
Falls ed è stata realizzata nel 1994. È un’opera
ispirata al film hollywoodiano Niagara Falls,
che Douglas ha trasformato nello scenario di
un esercizio mentale, in un gioco di equilibrio
tra realtà e immagine.
HUO — L’abbiamo incontrato più o meno nello stesso
momento. Nel 1994-1995 ho realizzato con lui alcuni
progetti al Musée d’art moderne de la Ville de Paris.
E invece a quando risale il viaggio a Los Angeles?
PSRR — Al 1996, direi. Con Francesco Bonami.
HUO — Come vi siete incontrati?
PSRR — Era il 1995 ed era appena stata costituita
la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Ho
voluto crearla perché sentivo che l’Italia aveva
bisogno di nuove istituzioni – in quegli anni gli
unici due musei dedicati all’arte contemporanea
erano il Castello di Rivoli e il Centro Pecci di
Prato. Perché desideravo sostenere concretamente
gli artisti.
Perché volevo condividere la mia
collezione. Ho sempre pensato che le opere della
collezione non fossero destinate a rimanere sulle
pareti della mia casa né chiuse in un deposito.
L’ho sempre immaginata aperta al pubblico.
Queste sono le ragioni che mi hanno spinta a dare
vita alla Fondazione. Lo stesso anno Flaminio
Gualdoni mi ha invitata a presentare alla Galleria
Civica di Modena (di cui era direttore) le opere
di artisti inglesi in collezione.
Era maggio e un
mese dopo era prevista l’apertura della Biennale
di Venezia. All’inaugurazione c’era Francesco
Bonami, che si è presentato e mi ha detto che
voleva organizzare una mostra di giovani artisti
fotografi a Venezia.
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — È divertente che sulla copertina del catalogo
ci sia un lavoro di Richard Wentworth. Ho fatto la
mia prima mostra come curatore nel 1991, in cucina,
con Fischli & Weiss e Frédéric Bruly Bouabré. Il
titolo, The Kitchen Show, veniva proprio dal lavoro
World Soup di Richard Wentworth. Wentworth è
sempre stato una figura affascinante per me. Per
questa ragione sono andato a Londra: è lui che nel
1995 mi ha presentato a Julia Peyton-Jones. Tutta la
mia storia con la Serpentine Gallery è cominciata
così. Wentworth è stato professore, un maestro per
i giovani, una figura di riferimento per gli Young
British Artists e oltre.
È lui che mi ha fatto scoprire
Helen Marten.
PSRR — Wentworth è una persona davvero
speciale e molto generosa. La scelta della
copertina è riconducibile non solo al mio
apprezzamento per il suo lavoro, ma anche
all’empatia che c’è stata fra lui e me durante i
nostri primi incontri.
HUO — E tu hai costituito la Fondazione con tuo
marito, Agostino Re Rebaudengo, giusto? L’hai cofondata.
PSRR — Sì, Agostino ha condiviso con me l’idea
e la nascita della Fondazione, che poi è diventata
la mia attività a tempo pieno.
La Fondazione è
un’istituzione no-profit e ha tra i propri obiettivi
il sostegno agli artisti, anche attraverso la
produzione delle loro opere. Fin dall’inizio
la committenza è stata molto importante per
me, così come la relazione con il pubblico e la
costruzione di partnership con altre istituzioni.
Sono le missioni fondanti che guidano il nostro
lavoro.
HUO — La parte inglese della tua collezione va dagli
anni Ottanta, con Tony Cragg, Wentworth, Kapoor,
fino agli YBAs.
PSRR — Sì, rispecchia ciò che stava accadendo
a Londra in quegli anni. Poi ho fatto rotta su Los Angeles.
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — Con Francesco Bonami hai subito iniziato
a lavorare insieme?
PSRR — Come ti raccontavo, ho conosciuto
Bonami a Modena nel maggio 1995. Il suo
progetto era di organizzare una mostra durante
la Biennale di Venezia. Il direttore di quella
edizione era Jean Clair e quindi si prospettava
una mostra conservativa, sicuramente non supercontemporanea.
Francesco pensava a una mostra più giovane, più fresca, dedicata alla fotografia
e me la propose a Modena. Mi chiese di sostenerla
economicamente. A giugno l’abbiamo inaugurata.
Ecco il catalogo.
Sai chi ha disegnato questo
primo logo? Umberto Allemandi, l’editore con
cui abbiamo pubblicato il catalogo della mostra.
Avevamo deciso di utilizzare la stellina blu dello
stemma araldico della famiglia Rebaudengo. Lui
ha disegnato queste due piccole stelle che si sono
poi trasformate nella nostra stella, ancora oggi
simbolo della Fondazione. Tornando alla mostra,
l’unica eccezione alla panoramica sulla fotografia
emergente era la scultura di Kcho, intitolata
A los ojos de la historia.
La mostra era allestita
alle Corderie dell’Arsenale, nello spazio dove ora
c’è il bookshop della Biennale.
HUO — Ma io l’ho vista quella mostra!
PSRR — Ah, te la ricordi? Campo 95 è stata
la prima mostra che abbiamo realizzato
Francesco e io. Il titolo era ispirato alla tipica
piazza veneziana e all’immagine capiente di
una coltivazione, di una semina. In Campo 95
esponevano ventisette artisti, giunti con le loro
opere da tredici diversi Paesi del mondo.
HUO — Nella prefazione in catalogo scrivevi di voler
contribuire allo sviluppo e alla divulgazione dell’arte
contemporanea. Da allora hai sempre avuto questo
desiderio, questa necessità di divulgare.
PSRR — Sì, è un principio che guida tutti i miei
progetti.
HUO — Proprio in quegli anni hai cominciato
a incontrare gli artisti italiani: Maurizio Cattelan, Vanessa Beecroft…
PSRR — Era molto difficile essere artisti italiani
allora. Hai nominato due artisti che per farsi
conoscere si sono spostati negli Stati Uniti.
Il sistema dell’arte contemporanea era fragile,
privo di strutture dedicate ai giovani. Ho guardato
agli artisti italiani con un’attenzione particolare.
Anche in questo caso molti appartenevano alla
generazione dei nati negli anni Sessanta: Stefano
Arienti, Luisa Lambri, Massimo Bartolini,
Eva Marisaldi…
HUO — Eva Marisaldi, che nel 1994 aveva esposto
a L’Hiver de l’amour, al Musée d’art moderne
de la Ville de Paris.
PSRR — Fin da subito ho guardato con attenzione
alla ricerca di Eva ed è entrata con diverse opere
in collezione. Era chiaro che in Italia mancasse
un sistema dell’arte evoluto e competitivo rispetto
alla scena internazionale.
HUO — Mancava un sistema di Kunsthallen, di spazi
pubblici.
PSRR — E la formazione accademica era ancora
molto tradizionalista.
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — In quell’ambito, proprio allora, lo IUAV di
Venezia segnò una vera e propria rinascita. C’erano
Angela Vettese e Marco De Michelis e si invitavano
gli artisti a insegnare. Olafur Eliasson, Rirkrit
Tiravanija, io e Nicolas Bourriaud: siamo stati tutti
professori per alcuni anni. Io ho scelto di combinare
la mia classe d’arte con quella di architettura
di Stefano Boeri.
PSRR — Quella scuola ha fatto la differenza.
HUO — Grazia Toderi ha insegnato con me, Tomás
Saraceno con Stefano Boeri. È stato un momento raro.
PSRR — Un caso unico nel panorama universitario
italiano, un modello. In Fondazione, da tempo,
promuoviamo la formazione specialistica
e per questo abbiamo dato vita a un corso
di studi e pratiche curatoriali.
HUO — Quando è stata fondata la scuola?
PSRR — Nel 2012, dieci anni fa. Sono sempre stata
attenta al ruolo del curatore. Credo sia importante
avere buoni artisti, ma anche curatrici e curatori
professionalmente preparati. Nel 2007 abbiamo
avviato lo Young Curators Residency Programme,
un viaggio di studio in Italia che coinvolge giovani
professionisti agli esordi, provenienti dalle più
autorevoli scuole di curatela del mondo. Quasi
immediatamente abbiamo cominciato a ricevere
richieste anche da giovanti aspiranti curatrici
e curatori italiani. Per loro abbiamo progettato
un corso di studi indipendente e lo abbiamo
intitolato Campo, ispirandoci alle prime mostre
di Bonami: Campo 95 a Venezia e Campo 6,
inaugurata a Torino nel 1996.
Le consideriamo
mostre generative nella storia della Fondazione
Sandretto Re Rebaudengo.
HUO — Campo 6. Il villaggio a spirale.
PSRR — È stata la prima mostra della Fondazione
che abbiamo proposto a Torino, ospitata nelle
sale della GAM, la Galleria Civica d’Arte Moderna
e Contemporanea della nostra città. Francesco
Bonami invitò, tra gli altri, Maurizio Cattelan,
Doug Aitken, i fratelli Chapman, Thomas
Demand, Sam Taylor-Wood, William Kentridge,
Gabriel Orozco, Rirkrit Tiravanija.
Erano giovani
ma già affermati. Sono arrivati a Torino
e si sono fermati una settimana, dieci giorni.
C’era un’atmosfera molto speciale.
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — È stata anche una delle prime mostre
con Philippe Parreno, vero?
PSRR — Sì, c’era anche Philippe. Tutti hanno
partecipato all’allestimento delle loro opere:
Tobias Rehberger, Pascale Marthine Tayou,
Tracey Moffatt, Mark Dion, Sarah Ciracì…
HUO — Intanto viaggiavate?
PSRR — Da Campo 95 Bonami è diventato
il direttore artistico della Fondazione.
Lavoravamo sia sulle mostre sia sulla collezione
e i viaggi erano fondamentali.
HUO — Francesco ha sempre avuto un legame con Los
Angeles. L’ho incontrato spesso lì. Oggi Los Angeles
è uno dei centri dell’arte più frequentati ma in quel
momento non era ancora così. C’era una incredibile
atmosfera. Mi ricordo che, quando arrivai per la
prima volta a Los Angeles, all’aeroporto mi venne a
prendere Jason Rhoades.
Mi disse: «Prima di andare
nel mio studio, devi incontrare e aiutare altri colleghi
meno conosciuti». A Los Angeles, in quegli anni, c’era
uno spirito molto bello, di solidarietà fra gli artisti.
Una situazione rara.
PSRR — Hai ragione, anch’io ho percepito
un’energia unica. Quando sono andata a trovare
Charles Ray, mi ha portata a conoscere i suoi
studenti nell’università in cui insegnava.
HUO — Qual è la sua opera che hai acquisito
per prima?
PSRR — Eccola… Immagina, una collezionista
torinese che ha appena iniziato ad avvicinarsi
all’arte contemporanea e sceglie 7 ½ Ton Cube.
È un’opera difficile da mostrare, perché pesa
sette tonnellate e mezza ed è molto delicata. È stata
la prima opera che ho comprato di Charles Ray.
In seguito sono entrati in collezione Viral
Research e la fotografia Untitled del 1973,
dove Ray appare legato e sospeso a un ramo
di un albero. Un’immagine molto forte.
HUO — All’epoca viveva a Los Angeles anche
Raymond Pettibon.
PSRR — Raymond Pettibon e Catherine Opie,
entrambi presenti in collezione. Un altro artista
eccezionale che ho incontrato durante una delle
studio visit organizzate con Bonami è Paul
McCarthy. Avevo già conosciuto Doug Aitken,
a Torino, per Campo 6. Doug è stato uno dei primi
artisti a cui ho commissionato un’opera, realizzata
nel 1999 in occasione della Biennale
di Venezia. Con Bonami decidemmo di produrre
la videoinstallazione Electric Earth, che poi,
nel 2017, ha dato il titolo alla personale di Aitken
al MOCA di Los Angeles.
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — Il ruolo del collezionista come committente
e produttore di opere è diventato più rilevante negli
anni Duemila.
PSRR — Già nel 1996 abbiamo prodotto alcune
delle opere di Campo 6 ma è proprio con Electric
Earth che la committenza diventa un vero
e proprio metodo, un nostro approccio distintivo.
Nel 2001 la Fondazione ha prodotto insieme alla
Serpentine Gallery di Londra i lavori realizzati
da Aitken per la personale New Ocean, e li ho
poi acquisiti.
Non tutte le opere prodotte entrano
in collezione. In altre occasioni abbiamo scelto
la coproduzione, come nel caso del progetto
Future Fields Commission in Time-Based
Media, un’iniziativa congiunta del Philadelphia
Museum of Art e della Fondazione Sandretto Re
Rebaudengo.
HUO — La Fondazione non è mai stata un’entità
isolata. C’è sempre stata l’idea della rete e soprattutto
della collaborazione, del dialogo con le istituzioni
pubbliche. Talvolta capita che le persone aprano una
fondazione e poi smettano di relazionarsi con altri
musei. Tu invece fin dall’inizio hai costruito una
solida rete di partnership. Insieme abbiamo lavorato
a un progetto di Ian Cheng, con la mostra Emissary
in the Squat of Gods, in Fondazione a Torino nel 2015,
poi a Londra alla Serpentine e a Madrid nel 2020. Ora
collabori con il Philadelphia Museum e hai appena
inaugurato la terza mostra della serie Future Fields.
PSRR — Per Future Fields la prima è stata
la commissione dell’opera Wil-o-Wisp di Rachel
Rose nel 2018, poi Neural Swamp di Martine Syms
nel 2021 e ora Air Pressure di Lawrence
Abu Hamdan. Ogni mostra è accompagnata da un catalogo.
Il lavoro viene poi co-acquisito
dalla Fondazione e dal Philadelphia. È un
procedimento piuttosto nuovo che reputo molto
interessante.
HUO — Quando ci siamo conosciuti, mi hai invitato
a far parte dell’advisory board della Fondazione.
La nostra prima vera collaborazione, nel senso del
produrre, è nata però con Dreams, un piccolo libro
che ho curato insieme a Bonami nel 1999.
Ora che hai parlato di Electric Earth e della Biennale mi hai fatto
ripensare ad Harald Szeemann, direttore artistico
di quella edizione. È evidentemente una figura
importante per me come svizzero. Quando ero al
liceo, a Zurigo, a diciassette, diciott’anni, ho visitato
la sua mostra Der Hang zum Gesamtkunstwerk
[Tendenza verso l’opera d’arte totale].
Sono tornato
a rivederla quaranta volte.
L’ho imparata a memoria
come si impara una canzone.
Un’altra coreografa che mi ha influenzato è
Yvonne Rainer. Nel 1966 Rainer ha creato
un’opera audiovisiva rivoluzionaria dal titolo
Hand Movie
PSRR — Davvero?
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — L’ho imparata con il cuore. Tornando a noi,
nel 1999 decidemmo di lavorare insieme a questo
progetto a Venezia. Come ha spiegato Édouard
Glissant, molta gente non va a vedere le mostre
perché c’è sempre una porta, una barriera. Dovremmo
cercare allora di andare incontro alle persone, e
questo fa parte della divulgazione dell’arte – no, anzi,
della disseminazione. È un’idea che Félix González-
Torres ci ha insegnato e di cui ho discusso molto con
lui.
Era il concetto alla base di Take Me (I’m Yours),
una mostra che ho fatto con Boltanski, la mia prima
mostra alla Serpentine nel 1995.
PSRR — Quando sei arrivato alla Serpentine?
HUO — Sono stato guest curator nel 1995-1996 e
nel 2006 ho affiancato Julia Peyton-Jones come
codirettore.
Take Me (I’m Yours) ribaltava le regole
che vigono nello spazio espositivo, sospendendo per
esempio il divieto di toccare. Potevi portarti a casa
uno dei frammenti delle opere esposte e allestire
la tua personale kitchen show. Tu e io abbiamo
sempre discusso su questo, sul fatto che si possa fare
divulgazione anche fuori dal museo. E così, non mi
ricordo esattamente come, mi è nata l’idea di fare una
mostra portabile, una piccola mostra da mettere in
tasca, da far trovare nelle camere degli alberghi, come
segno di benvenuto. Questa era l’idea. È vero, no?
Ti ricordi come è nato Dreams? Eravamo a pranzo,
proprio come oggi, e abbiamo fatto brainstorming.
PSRR — È vero, mi ricordo. Stavamo pensando
a un progetto diffuso e avevamo deciso di
raccogliere tanti sogni. È stato un lavoro lungo ma
entusiasmante: internet non si usava ancora molto
e quindi i sogni arrivavano via fax. Ma sai che ho
ancora trovato qualche fax?
HUO — Dove sono ora?
PSRR — In archivio. È un progetto bellissimo.
Abbiamo raccolto centocinque sogni in una
piccola pubblicazione che distribuivamo a
Venezia. Avevano tutti in mano il nostro libricino.
Mi ricordo di Nicholas Serota che durante la
serata dell’International Council della Tate, a casa
di Attilio Codognato, mostrava Dreams a tutti i
presenti. Pensi che potremmo riproporlo?
HUO — Dovremmo riproporlo con la realtà virtuale
e fisica combinate, come mixed reality. Avevamo
raccolto i sogni degli artisti e i loro progetti non
realizzati. Era quello che Alighiero Boetti mi aveva
consigliato di fare come curatore: chiedere agli artisti
non le opere ma le loro utopie, uscendo dal mondo
dell’arte, dalla cornice delle mostre, delle biennali,
del museo, della galleria. Ecco, con questo libro
abbiamo lasciato gli artisti sognare e, se possibile,
realizzare alcuni di quei sogni.
PSRR — Anche incubi. Non solo sogni.
HUO — Anche incubi. Mi ricordo che Cattelan diceva
che non si sogna quando non si dorme abbastanza e
questo mi ha fatto iniziare a dormire. Prima dormivo
molto poco.
PSRR — È vero, non dormivi!
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — Mi sono messo a dormire nel 1999, per poter
sognare. Ho anche incontrato Hélène Cixous, che
aveva l’abitudine di appuntarsi frammenti dei suoi
sogni subito dopo il risveglio. Nel libro Rêve je te dis
[Sogno ti dico] ne colleziona cinquanta dei dieci anni
precedenti.
PSRR — Ma tu sogni molto?
HUO — Adesso sì e tu?
PSRR — Sogno, ma dormo ancora poco.
HUO — Quante ore?
PSRR — Non più di cinque ore per notte.
HUO — Io cinque o sei dopo il 1999, prima del 1999
due. Dreams ha cambiato il mio ritmo, proprio grazie
alla frase di Cattelan e al libro di Cixous.
PSRR — Veramente? Dovrei fare anche un po’ mia
quella frase. Dormo pochissimo perché mi sembra
quasi di perdere tempo.
HUO — Anch’io ho questo feeling di perdere tempo.
PSRR — Con Dreams abbiamo disseminato
sogni. Li abbiamo messi in circolazione. Anche
per le opere della collezione è così. Ho sempre
voluto che fossero esposte in altri musei, in altre
istituzioni. Quest’anno, a Siviglia, nella mostra
della collezione al Centro Andaluz de Arte
Contemporáneo, abbiamo esposto anche Stoner,
un’installazione ambientale di Andra Ursuţa
del 2013. Si tratta di un lancia-palle da baseball
modificato per scagliare pietre contro due grandi
pareti coperte di piastrelle invecchiate
e screpolate del colore della carne livida,
incrostate di capelli umani. È un lavoro
durissimo che condanna la lapidazione,
un metodo secolare di esecuzione capitale
mediante tortura, ancora oggi praticato e
sanzionato in alcuni Paesi.
Quando ho visto l’installazione a Siviglia, ho detto al direttore
del Centro, Juan Antonio Álvarez: «Sei stato
coraggioso a esporre quest’opera», e lui mi
ha risposto: «Forse sei stata più coraggiosa
tu a comprarla». Quando rivedo le mie opere
in contesti nuovi, nelle sale dei musei di tutto
il mondo, mi appaiono diverse, quasi non mi
sembrano più mie.
È una sensazione di riscoperta
molto strana.
HUO — Perché le dai al mondo.
PSRR — Dopo averle acquisite, credo sia giusto
restituirle alla visione delle persone, del pubblico.
Per questo penso che la mia collezione debba
viaggiare. Ho sempre creduto che la Fondazione
non dovesse essere la casa della collezione.
Diventerebbe uno spazio fisso, immobile, statico.
La collezione viaggia. È un veicolo. Un laboratorio.
HUO — La collezione è stata mostrata in decine di Paesi,
è diventata un itinerario, come dimostrano tutti i libri
e i cataloghi che mi hai portato e stiamo sfogliando.
PSRR — Sì, esatto. La collezione è un itinerario.
È iniziato a Modena nel 1995 ed è proseguito
con le mostre realizzate in tutti questi anni.
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — Quali sono le tue preferite? Le ricordi tutte?
PSRR — Sì, tutte. Ricordo Espíritu y espacio nella
sede del Banco Santander a Boadilla del Monte,
vicino a Madrid, nel 2011. Una mostra fantastica.
HUO — Chi l’ha curata?
PSRR — Francesco Bonami. Le opere erano
esposte in tremila metri quadri di spazio:
quando entravi, avevi la percezione di un
ambiente talmente grande che non riuscivi a farti
subito un’idea complessiva. Era una mostra da
percorrere e scoprire passo dopo passo. Un’altra
mostra di cui ho uno splendido ricordo è Walking
on the Fade Out Lines, del 2018, al Rockbund
Art Museum di Shanghai. Un’altra esperienza
indimenticabile.
HUO — Come erano state scelte le opere?
PSRR — La mostra era a cura di Larys Frogier,
direttore del Rockbund, con Hsieh Feng-Rong,
senior curator del museo. Come sempre, abbiamo
instaurato un dialogo attento e proficuo ma poi
la selezione finale è stata loro. Non sono una
curatrice e quindi non ho mai curato mostre della
collezione. Amo vedere la collezione esposta in
altri musei, raccontata e reinterpretata da uno
sguardo esterno, alla luce di altre idee, di altre
prospettive. Dopo Madrid e Shanghai, ripenso
ancora alle mostre alla Whitechapel Gallery,
a Londra, e al Centro de Arte Contemporáneo
di Quito.
HUO — Parlami della mostra alla Whitechapel.
PSRR — Think Twice è durata un intero anno,
dal settembre 2012 al settembre 2013. Era curata
da Francesco Bonami e Achim Borchardt-Hume,
un caro amico scomparso tragicamente.
HUO — È importante ricordarlo, onorare la memoria
di Achim.
PSRR — Era davvero speciale. Ricordo i giorni
trascorsi con lui a Torino. Ci siamo presi del
tempo per riguardare insieme le opere della
collezione. In Fondazione lavoriamo sempre
così, è il nostro metodo consolidato: prima
inviamo i cataloghi e la documentazione ai
curatori, poi ci incontriamo a Torino per
analizzare i materiali insieme e per approfondire
il confronto. Ovviamente poi le scelte stanno
ai curatori.
HUO — Come dite voi: prendere il sole a Torino.
PSRR — È vero, è una bellissima immagine.
Il titolo dell’opera di Boetti è particolarmente
efficace. Le mostre nascono da un dialogo,
dall’intreccio fra la storia della collezione
e il background dei curatori e delle istituzioni
che hanno deciso di ospitarle. Think Twice era
un progetto espositivo diviso in quattro mostre,
ciascuna della durata di tre mesi. Ogni mostra
aveva un tema, un concetto, un suo titolo.
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — La divulgazione, la disseminazione, ancora
Félix González-Torres.
PSRR — Le quattro mostre, allestite nella
Collection Gallery, hanno creato una successione,
un racconto, una trama di relazioni. Ognuna
aveva il titolo di un’opera: Catttelan, con tre t,
dal lavoro di Maurizio, Viral Research dall’opera
di Charles Ray di cui abbiamo parlato prima, A
Love Meal dall’opera di Félix González-Torres
e Have you seen me before?, l’irresistibile orso
con il pelo di piume di pulcino di Paola Pivi.
Anche la mostra di Quito, in Ecuador, nel 2015,
è stata molto importante per me. Un vortice di
emozioni. Ho passato notti insonni a pensare alle
opere chiuse nei container, sulla nave, in mezzo
all’oceano. Avevo una terribile paura che potesse
affondare. Il lungo allestimento e poi l’immensa
felicità della sera dell’opening. Ero circondata
da migliaia di persone, venute appositamente a
scoprire la collezione. Si intitolava Spin-Off. Fra
le sessantacinque opere esposte c’era Christmas
Tree di Philippe Parreno, con la registrazione di
quarantacinque minuti di un finto monologo
di Jean-Luc Godard. Un lavoro che amo molto,
forse uno dei primi che ho acquisito di Philippe.
HUO — Come è stata accolta la mostra a Quito?
PSRR — È stato magico. L’emozione delle persone
era tangibile, la loro curiosità, il desiderio
di vedere, di conoscere. È in momenti unici come
quello che realizzo che una collezione deve
viaggiare, che non deve fermarsi. È questo
il modo in cui cresce ed evolve.
HUO — È interessante perché questo vuol dire che
il museo è “mobile”. La tua idea di collezione è
sempre stata orientata, da una parte, da questo museo
mobile in diversi luoghi del mondo e, dall’altra, dalla
Fondazione intesa come laboratorio. Un laboratorio
di mostre, di premi, della residenza e della scuola
per i giovani curatori.
PSRR — Fin dall’inizio il progetto della
Fondazione si è concentrato anche sulle nuove
generazioni curatoriali, oltre che sui giovani
artisti. Guarda questo catalogo: è uno di quelli
realizzati per le mostre degli anni Novanta,
raccolte nel programma intitolato Guarene
Arte. Le mostre si svolgevano a Palazzo Re
Rebaudengo, la nostra prima sede, inaugurata
nel 1997: una residenza settecentesca della
famiglia di mio marito Agostino. Per quelle
mostre chiedevamo ai giovani curatori e curatrici
di tutto il mondo di segnalare un artista e questo
ci consentiva di documentare con precisione e
grande tempismo le scene emergenti. La mostra
si concludeva con un premio, anzi due, entrambi
presieduti da una giuria autorevole: uno,
della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo,
era assegnato all’opera più interessante; l’altro,
della Regione Piemonte, al migliore progetto
ancora da realizzare.
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio
HUO — Questo è il catalogo di Guarene Arte 99.
PSRR — Il progetto è iniziato nel 1997 e tu c’eri.
Eri presente alla prima edizione.
HUO — Sì, è vero, mi ricordo.
PSRR — Avevi segnalato Urs Fischer.
HUO — Sì, Urs Fischer, che non era ancora famoso.
Me lo avevano suggerito Peter Fischli e David Weiss,
dicendomi: «C’è questo ragazzo in Svizzera, fai
attenzione». Sai, gli artisti parlano di altri artisti. Gli
artisti sanno sempre dov’è la prossima generazione.
PSRR — Oltre a te, quell’anno fra i segnalatori
c’erano Jean-Christophe Ammann, Kate Bush,
Richard Flood, Jaap Guldemond, Lars Nittve,
Angela Vettese e Octavio Zaya.
HUO — È in una di queste mostre che appare
per la prima volta Roberto Cuoghi, no?
PSRR — Sì, nella mostra del 1999, segnalato da
Emanuela De Cecco. Guarene Arte si è concluso
nel 2001. Sono stati cinque anni bellissimi e, direi,
cinque mostre fondative.
HUO — Credo sia molto importante sostenere gli
artisti all’inizio delle loro carriere. Penso allo Young
Curators Residency Programme, la vostra residenza
per curatori. Nel 1991-1992, quando ho cominciato
a fare mostre e ho curato The Kitchen Show, avevo
uno stipendio, grazie a una borsa di studio della
Fondation Cartier. Mi aveva invitato Jean de Loisy.
Mi ha cambiato la vita e non l’ho mai dimenticato.
Ho avuto per la prima volta l’opportunità di partire
dalla Svizzera senza prendere un treno notturno.
Prima potevo fare soltanto spostamenti di un giorno,
viaggiando di notte perché non potevo permettermi
gli alberghi. Arrivo da Cartier e mi fermo per tre
mesi: così per me è cominciato tutto. Bisogna
sostenere gli artisti, i critici, i creatori, gli architetti
all’inizio della loro démarche. Così si può fare
davvero la differenza. Per questo la tua Fondazione
mi ha sempre colpito. Hai cominciato sostenendo gli
artisti della tua generazione. Dunque, sono trent’anni?
PSRR — Trent’anni intensi, costellati di incontri,
di progetti e di risultati.
HUO — A oggi sei entrata in contatto con quattro
generazioni di artisti, proprio cominciando dai
tuoi viaggi e dalle mostre di Guarene Arte. Quattro
generazioni di artisti e di curatori.
PSRR — In effetti la nostra attenzione per
la curatela è emersa proprio in quegli anni, a
Guarene, prima dello Young Curators Residency
Programme, che, come dicevo, è nato nel 2007.
Era un tratto distintivo di Bonami. Francesco ha
sempre lavorato in modo molto partecipativo.
È l’approccio che caratterizza anche lo Young
Curators Residency Programme.
Ogni anno
invitiamo in Italia tre giovani curatori e curatrici
che hanno appena terminato i loro studi nelle
migliori scuole specialistiche del mondo.
Viaggiano in tutto il paese accompagnati da
un curatore italiano che coordina il progetto e
questo permette loro di scoprire la nostra scena
creativa, di conoscere direttamente i giovani
artisti, di visitare i loro studi, le gallerie, gli
spazi no-profit. Incontrano i direttori e i curatori
di musei e fondazioni, entrano nelle redazioni
delle riviste.
Alla fine viene concepita una
mostra di artisti italiani, pensata e curata da
loro. Fino a oggi la Residenza ha prodotto sedici
mostre sull’arte italiana, vista dalla prospettiva
specifica, e per certi aspetti inedita, dei curatori
internazionali coinvolti nel progetto. Dal 2020,
lo YCRP è attivo anche in Spagna, promosso
dalla Fundación Sandretto Re Rebaudengo
Madrid.
Abbiamo sempre sostenuto sia gli
artisti che i curatori. Non abbiamo mai separato
questi due aspetti.
Grazie a questo progetto, infatti, favoriamo il networking: l’arte italiana
o spagnola entra in contatto con gli sguardi dei
giovani curatori di tutto il mondo, molti dei
quali intraprendono una brillante carriera e
continuano a coinvolgere gli artisti conosciuti
durante la residenza. Per sostenere davvero i
giovani artisti ritengo sia essenziale incrementare
la loro mobilità e sviluppare per loro occasioni
di scambio professionale anche con coetanei
stranieri.
[…]
Reaching for the Stars, 2023, Veduta della mostra Palazzo Strozzi, Photo Ela Bialkowska OKNOstudio