Rirkrit Tiravanija
Tomorrow Is the Question
a cura di Camilla Mozzato
Tomorrow Is the Question è la prima personale in un museo italiano di Rirkrit Tiravanija (Buenos Aires,
1961), uno degli artisti più influenti della sua generazione, noto internazionalmente per opere che portano
la vita reale dentro gli spazi dell’arte, completandosi con l’intervento attivo del pubblico e infrangendo ogni
barriera tra oggetto e spettatore. La mostra al Centro Pecci riunisce tre progetti dell’artista intorno all’idea
di futuro e alla necessità di interrogarsi sul destino del nostro pianeta e dell’umanità.
Tomorrow Is the Question, la grande installazione da cui la mostra prende il titolo, riattiva
Ping Pong Society,
un progetto dell'artista slovacco Július Koller (1939-2007) presentato per la prima volta a Bratislava nel
1970. Koller installò tavoli da ping-pong in uno spazio espositivo e invitò i visitatori a giocare, con
l'obiettivo di coinvolgere e stimolare le persone verso nuove occasioni di pensiero attivo, in questo caso
indirizzato a una riflessione sull’ambiente e sul contesto culturale. Ripercorrendo le tracce di Koller,
Tiravanija riempie una delle sale del museo con tavoli da ping pong, a disposizione dei visitatori, su cui
campeggia la scritta: “domani è la questione”. Invitando il pubblico, solitamente passivo, a diventare parte
attiva della mostra, giocando o incitando gli altri che giocano, nel suo modo sottile e giocoso Tiravanija
mette le relazioni umane, lo scambio e la partecipazione al centro della “questione sul futuro”.
Sempre da un’opera di Koller parte anche il secondo lavoro presentato al Centro Pecci,
Untitled(Remember
JK, Universal Futurological Question Mark U. F. O.), una fotografia di un insieme di persone disposto a
formare un grande punto interrogativo nella Piazza delle Carceri di Prato. Si tratta infatti della rimessa in
scena di
Universal Futurological Question Mark [U.F.O.], che Koller realizzò nel 1978, una fotografia di un gruppo di ragazzi in uniforme che formavano un punto di domanda sul fianco di una piccola collina. Il
remake di Tiravanija ricontestualizza l’atto di Koller in un “qui e ora” che rende inevitabile metterlo in
relazione con l’attualità che più ci riguarda, ricordando il valore del dubbio, dell’interrogarsi su quanto
accade intorno a noi, ma anche invitando a riflettere sulla relazione tra individuo e massa.
Completa l’intervento di Tiravanija a Prato
Fear Eats the Soul, la grande bandiera che sventola davanti
all’entrata del museo. Prodotta per il progetto di Creative Time
Pledges of Allegiance, in cui alcuni artisti sono stati chiamati a concepire il disegno per un vessillo in uno spirito di resistenza politica, l’opera di Tiravanija richiama il titolo del film di Rainer W. Fassbinder
Angst essen Seele auf (La paura mangia l’anima,1973), che racconta l’amore difficile tra un’addetta alle pulizie tedesca e un meccanico marocchino,
relazione che fa emergere le loro paure più profonde tanto quanto la xenofobia e il razzismo che li
circondano. L’opera può essere considerata un manifesto, un’enunciazione programmatica valida per tutto
il lavoro di Rirkrit Tiravanija, che è un atto di fede sulle relazioni umane, l’accoglienza e la vicinanza
all’altro come valori che danno senso alla nostra vita e al nostro futuro.
Rirkrit Tiravanija Untitled (Fear Eats the Soul) 2019. Exhibition view at Centro Pecci, Prato, 2019. Photo© Ela Bialkowska
Rirkrit Tiravanija
*Nei lavori di Pierre Huyghe, Liam Gilliick, Dominique Gonzalez-Foerster, Jorge Pardo o Philippe Parreno, l'opera rappresenta il luogo della negoziazione tra realtà e finzione, narrativa e critica. Lo spettatore di una mostra di Rirkrit Tiravanija difficilmente riesce a distinguere la frontiera che separa la produzione dell'artista dalla propria. Prendiamo ad esempio
Untitle (One revolution per minute): un chiosco che distribuisce crêpes ai visitatori è al centro di un labirinto di panche, cataloghi, tende; quadri e sculture degli anni Ottanta (David Diao, Michel Veriux, Allan Mc Collum….) danno rilievo allo spazio. Dove si ferma la cucina e dove comincia l'arte, visto che l'opera consiste essenzialmente nella consumazione di un piatto, e gli spettatori sono incoraggiati a compiere gesti quotidiani? Questo dimostra chiaramente la volontà d’inventare collegamenti inediti tra l’attività artistica e l'insieme delle attività dell'uomo, costruendo uno spazio narrativo che cattura finalità e strutture del quotidiano in una forma-scenario che tanto diversa dall'arte tradizionale quanto il rave-party dal concerto rock.
Il titolo di un lavoro di Rirkrit Tiravanija si accompagna spesso alla menzione in parentesi “
lots of people” a dimostrazione del fatto che la gente fa parte dell'opera. Invece di limitarsi ad osservare a distanza un insieme di oggetti, gli spettatori sono invitati ad avvicinarsi e a servirsene. Il senso dell'iscrizione viene costruito dall'uso che ne fa la gente, proprio come una ricetta di cucina non ha senso finché non la si realizza per qualcuno. L'opera fornisce la chiave narrativa, una struttura partire dalla quale si forma una realtà tangibile: spazi destinati alla svolgersi di funzioni quotidiane (suonare la musica, mangiare, riposarsi, leggere, discutere) diventano opere d'arte, oggetti. Lo spettatore di una mostra di Rirkrit Tiravanija si confronta con il processo costitutivo del senso nella propria vita, grazie a un processo parallelo a quello della costruzione di senso dell'opera. Al pari di regista cinematografico, Tiravanija è, a turno, attivo e passivo, spinge gli attori ad assumere certi atteggiamenti e poi li lascia improvvisare, comincia a cucinare prima di lasciar fare gli altri lasciandogli una semplice ricetta o degli avanzi. In tal modo produce modi sociali parzialmente imprevedibili, un'estetica relazionale la cui caratteristica primaria è la mobilità. La sua opera è un insieme di bivacchi precari, accampamenti, workshop, tragitti e incontri temporanei: il suo vero soggetto è il nomadismo, e ed è attraverso la problematica del viaggio che si intravede il suo universo formale. A Madrid, l'artista filma il tragitto tra l'aeroporto e il Centro Reina Sofia dove partecipa a una collettiva
(Untitled, para Cuellos de Jarama to Torrejon de ardoz to Coslada to Reina Sofia, 1994). Per la Biennale di Lione espone la vettura che gli ha permesso di arrivare fino al museo (
Bon voyage, Monsieur Ackermann, 1995)
On the road with Jiew, Jeaw, Jieb, Sri and Moo (1988) è il risultato di un viaggio con cinque studenti dell'università di Chang Mai, da Los Angeles a Philadelphia dove ha luogo la mostra. Il viaggio vieni documentato con video, fotografie e un diario di bordo trasferito su Internet, mentre il tutto viene presentato al museo di Philadelphia sotto forma di CD rom.
Rirkrit Tiravanija, Untitled (Remember JK, Universal Futurological Question Mark U. F. O. , Piazza delle Carceri, Prato) 2019.
Exhibition view at Centro Pecci, Prato, 2019. Photo© Ela Bialkowska
Tiravanija ricostruisce anche le strutture architettoniche che ha visitato, come un emigrante che fa l'inventario dei luoghi che ha lasciato: il suo appartamento del Lower East Side rifatto a Colonia, uno degli otto studi del Context studio a New York rifatto al Whitney Museum (
Reheasal Studio n° 6), la galleria Gavin Brown trasformata in sala prove ad Amsterdam... Il suo è un mondo fatto di camere d'hotel, ristoranti, negozi, bar, luoghi di lavoro, punti di incontro e di ristoro (la tenda di
Cinema de ville, 1988). Gli spazi proposti da Tiravanija sono quelli che formano la giornata di un qualunque viaggiatore sradicato: si tratta sempre di spazi pubblici, ad eccezione del proprio appartamento la cui forma lo accompagna all'estero come un fantasma del passato. L'arte di Tiravanija ha sempre un rapporto con il dono o con l'apertura di uno spazio. Ci offre le forme del suo passato, i suoi strumenti, e trasforma gli spazi nei quali espone in luoghi accessibili a chiunque, come è accaduto nella sua prima personale a New York quando invitò dei senzatetto a mangiare in galleria. Tale attitudine è comparabile a quella generosità diretta tipica della cultura thailandese, grazie alla quale i monaci buddisti beneficiano dei regali della gente evitando così di lavorare.
Questa precarietà è al centro dell'universo formale di Rirkrit Tiravanija; niente è duraturo, tutto è movimento, il tragitto tra due luoghi è più importante dei luoghi stessi, gli incontri più importanti degli individui che li generano. I musicisti di una jam session, gli avventori di un bar, i bambini di una scuola, il pubblico di uno spettacolo di marionette, gli ospiti di una cena: queste comunità temporale si organizzano e materializzano in strutture che sono attrattori di umanità. Associando quindi i concetti di comunità ed effimero, Tiravanija si oppone all'idea che l'identità sia indissolubile o permanente: la nostra etnia, la nostra cultura nazionale e la nostra stessa personalità non sono che bagagli che ci portiamo dietro. Il nomade descritto dal lavoro di Tiravanija è allergico alle classificazioni nazionali, sessuali o tribali. Cittadino di uno spazio pubblico internazionale, egli non fa che attraversarlo per una durata determinata prima di assumere nuove identità, egli è universalmente esotico. Conoscere ogni tipo di persona, così come succede con gli stranieri che incontriamo durante un lungo viaggio. Si potrebbe dire che uno dei suoi modelli formali sia l'aereoporto, luogo di transito nel quale le persone vagano da una boutique all'altra, da un punto informazioni all'altro e si uniscono a microcomunità che si formano temporaneamente nell'attesa di raggiungere una destinazione. Le opere di Tiravanija sono accessori e scenografie di uno scenario planetario, un copione
in progress il cui soggetto è: come abitare il mondo senza risiedere in nessun luogo.
*Post Production. La culture comme scénario: comment l'art reprogramme le monde contemporain. Nicolas Bourriaud 2002
Rirkrit Tiravanja, Untitled (Tomorrow Is the Question) 2019. Exhibition view at Centro Pecci, Prato, 2019. Photo© Ela Bialkowska
Rirkrit Tiravanija. Tomorrow Is the Question