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Lo Schermo dell'Arte
Rosa Barba
Talking

 
Rosa BarbaInside the Outset: Evoking a Space of Passage, 2021, CanGo - Cantieri Goldonetta di Firenze.



Lo Schermo dell’Arte dedica il Focus on 2022 all’artista e filmmaker Rosa Barba che da anni conduce un lavoro di ricerca e sperimentazione che attraversa il linguaggio cinematografico e scultoreo. Per l'occasione del festival in mostra l’installazione Inset the Outset: Evoking a Space of Passage e cinque produzioni video realizzati tra il 2012 e il 2021.

Il lavoro di Rosa Barba, artista italiana che da molti anni vive in Germania, si sviluppa nelle intersezioni tra mezzi diversi come il film, il sonoro e il testo scritto. Nei suoi film, costruisce narrazioni spesso avvolte da un senso di mistero, che trova un'espressione assai personale inizialmente in una serie di cortometraggi senza immagini, esperimenti di cinema costruito utilizzando solo testi e sottotitoli. Le opere di Rosa Barba, sempre girate in pellicola, indagano il confne sottile che separa il documentario dalla finzione e compongono universi distopici senza precise coordinate temporali, in cui è quasi impossibile collocare gli eventi, come se ci si trovasse intrappolati in una macchina del tempo.

'Io scopro le mie storie scrivendole, (afferma Rosa Barba) nel momento in cui trovo informazioni su determinati luoghi, persone, società, etc. Per me le storie non sono necessariamente il contenuto dei miei lavori, ma piuttosto lo strumento con cui raccontare i diversi aspetti dell'esistenza. Ciascun oggetto, luogo, macchina ed essere umano è parte di un allestimento che io cerco di raffgurare e guardare da una certa prospettiva.
Cerco sempre di allargare questa prospettiva, senza perdere di vista la storia. Ci sono anche interruzioni e salti temporali, perché la linearità non sempre è utile a trovare lo schema connettivo di tutti gli elementi. Sono ancora un'amante dei film, ma a giocare un ruolo fondamentale, nel modo in cui vivi la storia, sono l'architettura cinematografica, il luogo in cui ti siedi e vedi il film, i proiettori, l'odore e l'intensità della luce del proiettore. Quando ancora lavoravo come proiezionista in un cinema di Colonia, durante gli studi, una volta mixai le tre bobine di un film. Proietai la fine del film a metà e la metà alla fine. Nessuno se ne accorse. Penso che questo mi abbia dato un'idea completamente nuova delle potenzialità del cinema.'

Rosa BarbaInside the Outset: Evoking a Space of Passage, 2021, Film still.

D - Inside the Outset: Evoking a Space of Passage è un progetto in due parti: un film e un'installazione cinematografica Open-Air a lungo termine.

Rosa Barba - Sono stata invitata a Cipro sette anni fa da un'istituzione locale, il Point Art Center di Nicosia, insieme a Mirjam Varadinis, e sono rimasta molto incuriosita dalla zona di confine e dalla separazione dell'isola. Ho trovato un luogo, un campo spoglio, dove da un lato c'è una moschea e dall'altro una chiesa, e ho proposto di costruire lì un cinema all'aperto, dove le persone di entrambe le parti potessero accedere agli stessi film, senza controlli di frontiera. Ho progettato una sorta di anfiteatro - di forma circolare, per tornare all'idea del loop - con uno schermo al centro. Anche nelle mie mostre, di solito si vede il film da entrambi i lati. Poiché è la prima struttura in assoluto dal 1974 a essere collocata in quella zona, non volevo imporre qualcosa che rimanesse per sempre. È fatta di terra battuta, di terra che è già lì. L'intero palco è anche la seduta. L'unica imposizione è la cornice con lo schermo, che poi può essere tolta. Quindi, questo progetto riguarda anche il tempo: quanto durerà prima di deteriorarsi e tornare nella terra? E ci sarà abbastanza tempo perché faccia il suo lavoro, perché le persone si riuniscano e lo usino come spazio di condivisione?

D - Credo che l’elemento unificante tutte le tue opere audiovisive è lo spazio, declinato in tutte le sue forme e relazioni.

RB - La mia pratica, da molto tempo, si basa su un intenso approccio concettuale al cinema. Tendo cioè a considerare le immagini in movimento in senso architettonico, per cui l’ambiente (ovvero lo spazio), lo schermo e la proiezione, possono essere combinati insieme o spinti in avanti per creare un altro spazio, che sia appunto «oltre» ed esista nella dimensione interna ed esterna. È uno spazio che filmo con un senso di incertezza e speculazione. Il mio obiettivo è creare un nuovo «auditorium», che consenta un pensiero ampliato, dove emittente e ricevente fluiscano in entrambe le direzioni.

D - Tu lavori sulla giustapposizione di luoghi e situazioni, spesso distanti e in contrasto tra loro, e da questa alternanza scaturisce una riflessione estetica e concettuale.

RB - Sì, è una giustapposizione di spazi e spesso anche inserti performativi con persone che portano informazioni su quei luoghi, creando una sorta di vibrazione, accompagnandoci in un viaggio che dal cinema ci conduce verso a un altro tipo di forma audiovisiva. Nelle mie opere prendo in esame la possibilità di attivare il subconscio collettivo come metodo artistico per approdare in un ambiente oscillante. L’idea è di esplorare come le peculiarità del cinema, in termini fisici e concettuali, coincidano con gli elementi di altre discipline e aree di indagine.

D - Fai spesso uso del 16mm e della pellicola (anche se poi riversata in 8K) all’interno del tuo lavoro. Cosa ti interessa e ti attrae di più del formato e del linguaggio analogico rispetto al digitale?

RB - I lavori che vengono editati in formato 8K nascono già su dispositivi digitali ad alta risoluzione. Penso al mio Inside the Outset, dove aveva bisogno di videocamere particolari per filmare a 40 metri sotto il mare o a The Color Out of Space, girato con strumenti per l’astrofotografia. Il materiale filmato che solitamente realizzo io stessa, viene girato su supporto analogico durante lo sviluppo del progetto. Tale materiale è spesso caratterizzato dallo sfarfallio, un metodo per catturare il paesaggio totalmente opposto all’acquisizione di tipo algoritmico.

D - Come nasce un progetto? Fai più ricerche sul campo per esempio viaggiando, oppure l’idea matura attraverso la lettura di testi e saggi?

RB - Entrambe le cose e spesso queste due componenti si sovrappongono. Faccio anche molte conversazioni con le persone che ruotano intorno a questi luoghi, ma è importante partire dalla letteratura su determinati argomenti, con tutti i pensieri filosofici o socio-politici che ne derivano.

Rosa BarbaNeue Nationalgalerie, Berlino


Tempo (come titolo): "The Perpetual Now". Luogo: Neue Nationalegalerie di Berlino, l'icona modernista recentemente rinnovata di Mies van der Rohe. Le questioni di temporalità sono fondamentali anche nell'esperienza dell'edificio stesso, che ha riaperto dopo sei anni di restauro guidato dall'architetto britannico David Chipperfield.

Una presentazione stratificata e quasi frenetica con opere dal 2009 al 2021, la mostra di Rosa Barba nel Graphikskabinet del museo costituisce anche una riflessione ponderata dell'eredità di van der Rohe. Blind Volumes / Backstein (2021), un'installazione fatta di acciaio, plexiglass, schermi e piattaforme, prende come punto di ispirazione il disegno di van der Rohe del 1924 per una "Brick Country House" non realizzata, accentuando il modo in cui la sua eredità è un dispositivo di quadrature. Quest'opera è anche la struttura fisica della mostra stessa: la superficie su cui vengono proiettati film o luci sincronizzate e su cui vengono posizionati proiettori-sculture. L'approccio scultoreo di Barba al film facilita la concezione del tempo come forma accumulativa. Questo annullamento della progressione lineare è presente nel movimento in loop che caratterizza alcune sue sculture, come le strisce di pellicola attorcigliate che si accumulano sul pavimento in Spacelength Thought (2012), che è costruito dall'interazione coreografica e continua tra una macchina da scrivere, un proiettore e la celluloide. È anche il soggetto di molte sue opere in movimento, come in From Source to Poem (2016), un film in 35 mm con sonoro ottico che si concentra in parte sull'archivio multimediale più grande del mondo in Virginia, dando un'immagine della conservazione della memoria come eccessivamente statica. Come qualcosa che, soprattutto, occupa spazio.

Rosa BarbaPlastic Limits – For the Projection of Other Architectures, 2021 Film still


Plastic Limits – For the Projection of Other Architectures

D - La Neue Nationalgalerie è notoriamente un luogo "difficile" dove esporre perché la struttura è decisamente dominante. Quale il tuo approccio all'architettura e in che modo lo stile dell'edificio ha influenzato la tua scelta di esporre lì?

Rosa Barba - Le mie mostre personali si confrontano sempre con l'architettura e la storia dell'edificio. Cerco di capire come la mostra possa in qualche modo espandersi verso l'esterno o riflettere l'esterno nello spazio interno, in modo che ci sia sempre un dialogo in corso. Per questa mostra ho deciso di guardare alle idee che l'architetto dell'edificio, Mies van der Rohe, non ha mai realizzato. Ho scoperto i progetti di un edificio simile a quello che poi è stato realizzato per il padiglione di Barcellona e li ho presi come modello, traducendo la pianta di questo edificio non realizzato in un palcoscenico orizzontale per le mie opere, che sono installate a diverse altezze all'interno di quello spazio.

D - La Neue Nationalgalerie - che viene vista come la raffigurazione ideale dell'approccio di Mies all'architettura - è stata a sua volta il risultato dell'adattamento di piani per altri progetti che non erano stati realizzati, uno a Cuba e l'altro in Germania.

RB - Mi interessano sempre le storie invisibili, o in qualche modo incorporate in cose che nel frattempo hanno acquisito un'altra funzione. Volevo dialogare con questo edificio, ma anche avere un dialogo più ampio utilizzando il lessico dell'edificio - il linguaggio delle proporzioni e della sua struttura, per esempio. Mentre facevo ricerche in merito, ho scoperto che Mies aveva un legame con il cinema sperimentale, che non è così scontato quando si pensa a lui. C'era tutta un'idea di ritmo che cercava di tradurre dai primi film d'avanguardia di Hans Richter, che avrebbe usato come metodologia per pensare all'architettura. L'idea della storia nascosta si riferisce anche a questo lavoro cinematografico, che non è stato inserito nell'archivio, non è stato integrato come qualcosa di valore. Mi interessa riunire questi fili storici con i miei film.

D - La Neue Nationalgalerie non è uno spazio apolitico. Qualunque cosa vi venga esposta è segnata da quel contesto nazionale, dal contesto culturale della Germania occidentale del dopoguerra - il contenuto dell'edificio sarà "calamitato" dalla storia dello spazio.

RB - Ebbene, Plastic Limits affronta direttamente questo tema. È una sorta di "film di definizioni", su ciò che potrebbe essere l'architettura e su ciò che potrebbe essere il film stesso. I testi appaiono ai lati dell'inquadratura del film, fornendo un sistema di definizioni - qualcosa che ho usato in altri lavori - un lessico, una biblioteca fittizia di termini. Ho fatto molte riprese dell'edificio, che uso come una sorta di dispositivo di proiezione su cui si riflette la città. Ho incluso anche delle riprese effettuate nel museo alcuni anni fa, quando l'edificio era stato sventrato e l'interno era uno spazio deserto. Il titolo si riferisce alla plasticità del film, ma anche dell'architettura.

D - L'uso del testo nel film e l'esplorazione dei vocabolari sono anche modi di sezionare le pratiche archivistiche, di guardare a come le cose vengono catalogate e classificate?

RB - Il linguaggio è spesso usato per catalogare, per raccontare l'archivio, ma io cerco sempre di trovare nuovi modi di usare il testo, di fargli esplodere la propria funzione. Per me è molto interessante piegare il linguaggio, stravolgerlo in una direzione che gli faccia assumere un significato completamente diverso. È per questo che lo uso nei miei film: una descrizione inizia con una sorta di fatto, ma poi si allunga in una possibilità, e presto la Biblioteca del Congresso diventa la Biblioteca di Babele. A un certo punto non sappiamo più dove siamo, perché queste parole hanno creato un nuovo tipo di possibilità ibrida nello spazio dell'archivio.

Nel film Bending To Earth, che ho girato sui siti di uranio nel deserto dello Utah e del Colorado, la materia prima è anche una sorta di archivio, un archivio di qualcosa che precede persino la nostra nozione di tempo. Anche qui la voce fuori campo inizia descrivendo il sito: di quali materiali è composto, che tipo di miscele tossiche e di ghiaia ci sono. Il testo inizia come una didascalia di una scultura o di un dipinto che descrive i materiali utilizzati e ne indica la data, per poi trasformarsi in una considerazione sul tempo stesso.

Rosa BarbaAggregate States of Matters, 2019, 35 mm, color, sound, 18 minutes.


Aggregate states of matters

D - Parlando del tuo lavoro Aggregate states of matters 2019, durante l'inaugurazione dell'opera, hai fatto riferimento al paragone che Gertrude Stein fa tra le linee disegnate dai cubisti e il paesaggio visto dall'alto, e hai descritto la prospettiva aerea come una soglia tra cinema, disegno e modellazione 3D. Il senso di non appartenenza è accentuato dalla colonna sonora inquietante del musicista tedesco Jan St. Werner, che ha lavorato con registrazioni sul campo, con gli scricchiolii del ghiaccio che si sentono ogni due-cinque minuti nel ghiacciaio Pastoruri del Perù e con i suoni martellanti della conduttura che scorre fino al lago sottostante, come un'installazione di Land-art fatta di forme tubolari.

RB - Per il mio film, Aggregate States of Matters, 2019, ho lavorato con le comunità Quechua delle Ande, colpite dallo scioglimento dei ghiacciai. Il lavoro è un'ulteriore indagine sulle trasformazioni sociali inscritte nel paesaggio. Mette in evidenza l'ambigua relazione tra gli esseri umani e la natura e le costanti negoziazioni nella creazione di valore derivante dalla natura.
Esplorando i diversi miti che sono stati trasformati e trasferiti dal paesaggio, ho cercato di rappresentare la possibilità di tradurre le conoscenze antiche nel tempo presente. Come nei miei film precedenti, Aggregate States of Matters presenta performance collettive in cui i ricordi dei protagonisti interagiscono con uno scenario paesaggistico. Il film mostra l'offuscamento e la fusione dei confini tra attori umani e non umani. Mentre una parte della popolazione indigena trae profitto dai benefici e dalle ricchezze dell'agricoltura, che stanno rapidamente aumentando a causa del cambiamento delle condizioni ambientali, allo stesso tempo affronta sfide in rapida evoluzione nella propria vita spirituale e culturale. Ho camminato con un gruppo fino al ghiacciaio Ausangate per seguire e filmare un rituale per il ghiacciaio. Gli ampi dialoghi che ho avuto con la gente del posto entrano nel film come un paesaggio di parole che emergono sopra le riprese aeree che ho fatto da un aereo sopra i ghiacciai.

Ho cercato di tematizzare la crescente consapevolezza e l'evidenza dell'interferenza umana sulla Terra, che ha portato a una percezione generale di urgenza, intangibilità e stato di crisi permanente, ponendo la questione centrale della rappresentazione già posta dallo studioso Rob Nixon: "Come possiamo convertire in immagini e narrazioni disastri che si muovono lentamente e che sono in corso da tempo, disastri che sono anonimi e che non hanno come protagonista nessuno, disastri che sono attinenti e di scarso interesse per le tecnologie da sensazione del nostro mondo dell'immagine? Come possiamo trasformare le lunghe emergenze di violenza lenta in storie abbastanza drammatiche da suscitare un sentimento pubblico e giustificare un intervento politico, queste emergenze le cui ripercussioni hanno dato origine ad alcune delle sfide più critiche del nostro tempo?".

Rosa BarbaSubconscious Society - photochemical mistakes, 2013, Rosa Barba


Subconscious Society

Girato a Manchester e nel Kent, la pellicola si ispira alla storia di questi luoghi tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo: Manchester come prima metropoli industriale, Margate e la costa del Kent per la crescita di una nuova cultura del tempo libero per le masse. L'opera ritrae una "società" intrappolata in un interno in via di deterioramento, dove i personaggi esplorano ciò che accade quando gli oggetti perdono le loro funzioni e i loro significati, mentre sono coperti da un mondo fatiscente e abbandonato: barche arrugginite, moli e montagne russe che crollano ed edifici deserti che emergono dal mare.

D - Il rapporto tra memoria e compressione sembra essere alla base della tua pratica ed emerge in molti modi nei tuoi lavori: il tuo interesse per le modalità di inscrivere la cultura, ma anche la tua concezione scultorea del cinema e della storia.

RB - La compressione della memoria mi affascina molto e si manifesta in varie forme intorno a noi, ma anche in sforzi reali come gli archivi culturali o storici che utilizzano diverse tecniche per contenere e conservare la conoscenza. Nei miei film e nelle mie sculture cerco di creare una visione multidimensionale della storia o della sua conservazione: una scultura in divenire, una forma compressa, spesso fatta di suoni, linguaggio e immagini, e spesso di non-immagini che aprono uno spazio cinematografico in cui collocare questa compressione, come in Western Round Table (2007) o nella serie White Museum (2010). Inoltre, non vedo mai il mio lavoro come un risultato finale, ma piuttosto come una sperimentazione e un pensiero continuo. Inoltre, la storia deve essere costantemente vista sotto una nuova luce, anche se i fatti inscritti devono sempre essere presi in considerazione. Io cerco di cogliere questi fatti e di portarli con me per trarne ulteriori spunti. Quando dico che la storia è come una scultura, intendo le linee spaziali e temporali sottostanti alla poetica della distanza. È un atto di equilibrio, in un ambiente instabile. Voglio riflettere sugli spazi della conservazione, sul rapporto tra passato e presente e sulla sospensione del tempo cronologico: guardare più da vicino le geografie che creiamo intorno a noi, avviando un dialogo sul significato e sul contenuto dello sforzo collettivo di conservare elementi di valore culturale.

D - Questa sospensione del tempo cronologico permette un'esperienza diversa dello spazio e delle comunità che ritrai in Subconscious Society: il film sembra una sorta di diario di viaggio fantascientifico...

RB - Gli scritti di Walter Benjamin sulla nozione di archivio e di memoria mi hanno influenzato molto. In Subconscious Society, viene introdotto come una sorta di dato di fatto; ci trasportiamo in questo strato subconscio da cui continuiamo a navigare e a guardare le cose che abbiamo creato intorno a noi e come si trasformano nel tempo. "Diario di viaggio fantascientifico", come l'hai definito tu, è un'ottima descrizione. Uso il suono come metodo di spostamento, ma anche tutti i tipi di dispositivi in movimento da cui ho filmato: hovercraft, aerei e barche... Ti fa vedere queste cose mentre ti avvicini a loro e ti muovi con la loro instabilità. Il musicista Tim Gane ha composto un Leitmotiv nel quale, in collaborazione con Jan St. Werner, ho inserito altri suoni e conversazioni avute con i protagonisti durante le riprese del film all'Albert Hall. Alcune persone di quella comunità ricordavano le diverse funzioni dell'edificio. Parlano di come sia stato un cinema, un teatro e un parlamento nel corso dell'ultimo secolo. Altri protagonisti sono stati scelti perché non hanno mai lasciato l'isola della Gran Bretagna e non sono mai saliti su un aereo. Altre parole funzionano come una narrazione, pronunciate da Laetitia Sadier o cantate da David Michael di Gregorio. Queste storie articolate attraverso voci fuori campo, sottotitoli e brani di testo - sono temporalmente indeterminate e sono tratte sia da documenti ufficiali sia da aneddoti personali di persone che vivono vicino al soggetto che sto indagando. Nel periodo in cui abbiamo girato le scene del film all'Albert Hall, la famosa sede della BBC a Manchester è stata demolita e tutti gli elementi che ne facevano parte e che hanno contribuito a creare cose di importante valore culturale per noi, come le sessioni del programma di John Peel, sono state buttate via. Ne abbiamo raccolte alcune e le abbiamo portate sul set per riformularle.

Rosa BarbaRosa Barba, Printed Cinema # 10 Vertiginous Mapping. Editore: Buchhandlung Walther König, Köln, 2008.


Printed Cinema

L'interesse per le affinità tra arte e linguaggio non sorprende chi ha riflettuto sul titolo delle pubblicazioni che Rosa Barba distribuisce nelle sue mostre. Ogni edizione di Printed Cinema riflette il processo di realizzazione di ciascuno dei suoi film: in questo modo precedono l'opera finita, ma resistono anche dopo la mostra più concretamente delle immagini dei film proiettati. Si chiedono cosa significhi per il cinema - un linguaggio visivo di inquadrature e connessioni - essere sovrapposto o mescolato con il testo, e il riordino della gerarchia tra parola e immagine che questo implica. La lettura può essere cinematografica: le pagine che girano, le immagini e l'impaginazione montate insieme? Un libro illustrato può comportarsi come un film, o il film è qualcosa di più di un passaggio di immagini? Roland Barthes ha scritto che, a differenza delle fotografie, non si possono studiare le immagini su pellicola per tutto il tempo che si vorrebbe: esse passano secondo la velocità del proiettore, non secondo la velocità di contemplazione dello spettatore. Per Barthes, queste immagini rimanevano in qualche modo sconosciute, o non ci si poteva fidare, e la traduzione di Barba del film sulla pagina stampata sembra mettere in discussione questo desiderio di conoscere vedendo e possedendo. Sapientemente, alimenta il nostro desiderio di afferrare le cose, di esercitare un controllo su di esse così come esistono davanti a noi, e di conservarle, forse vanamente.

D - Hai citato in alcune circostanze le pubblicazioni di "Printed Cinema", e di come il testo ha un ruolo importante anche nel tuo lavoro scultoreo. Come vedi il testo e la sua lettura legati al cinema?

RB - È iniziato quasi 10 anni fa, quando ho voluto tradurre i film in materiale stampato. I Printed Cinema sono sempre basati su un progetto e uso il materiale di ricerca circostante come una sorta di letteratura secondaria del progetto, compresi tutti gli appunti che prendo e le fotografie. Non sto "mostrando" le fotografie, ma le uso come materiale di ricerca, e come tali a volte finiscono in Printed Cinema.

D - Vedi quindi questo materiale documentario e di ricerca come parte dell'opera d'arte?

RB - Sì, diventa un oggetto, ma è continuo e mai finito. Le vedo come proiezioni, quindi idealmente ognuna di esse dovrebbe apparire solo in una città, come un piccolo festival del cinema, e si potrebbero collezionare.

Rosa BarbaTime as Perspective, 2012 35mm film, color, optical sound; 12 min


Time as Perspective

D - Per Time as Perspective, 2021 usi il termine "deep time" quando parli del lavoro. Puoi dire qualcosa sul titolo e sul modo in cui questo lavoro si relaziona con le nozioni di tempo?

RB - Time as Perspective significa per me una sorta di tempo geologico profondo, come un'esposizione temporale in una fotografia, ma scattata in modo che l'immagine non risulti sfocata; si vede invece la profondità e la struttura di un movimento o di una storia, con tutti i suoi cambiamenti. Penso al tempo come a una lastra stratificata, con periodi sovrapposti l'uno all'altro, più che come una singola linea allungata. Ho spesso l'impressione che per vederlo sia necessario trovare l'angolazione giusta da cui guardarlo. Usare la mia cinepresa mi permette di essere sincronizzata o vicina al "tempo", soprattutto quando filmo in spazi ampi dove il tempo sembra esistere all'infinito in ogni direzione - è quasi tridimensionale.

D - Time as Perspective è un film ed il titolo di alcune mostre in città differenti. La mostra a Bergen è il secondo "capitolo" e precede un "prologo" al Jeu de Paume di Parigi e un primo "capitolo" alla Kunsthalle Zürich. Come si è evoluto il progetto?

RB - L'idea è di come l'allestimento pianificato di una mostra possa espandersi e crescere nel tempo in un altro spazio. Alcuni pezzi ritornano nel nuovo spazio ma si confrontano con nuovi interlocutori, che sono pezzi aggiuntivi, o si trovano in un'altra costellazione nella nuova architettura.

D - Usi spesso lettere e testi nelle opere, che ruolo ha il linguaggio in questa mostra?

RB - Frammento le mie opere in diversi livelli narrativi (testo, suono e immagine) che si incontrano, comunicano o si disturbano a vicenda. Per esempio, in A Private Tableaux del 2010, anch'esso in mostra, ho camminato sotto il fiume Mersey registrando la città sotterranea che pompa aria attraverso questi tunnel. Sui soffitti di queste gallerie ci sono questi disegni bianchi fatti a mano che gli ingegneri realizzano per esaminare le crepe dovute alla pressione delle automobili che percorrono le sopraelevate. Sono come pitture murali o disegni di caverne, ma anche come un linguaggio di segni. È quasi impossibile immaginarli come funzionali. Sembrano seguire una sorta di logica o avere un senso. Ho scritto un racconto su queste immagini e ho tagliato il film con il testo di queste possibili spiegazioni. C'è una sorta di dialogo tra il testo e l'immagine, una specie di Q&A. In Time as Perspective, il testo impone un altro ritmo narrativo al movimento delle pompe del petrolio: un pensiero in loop che viene iscritto.

D - In un certo senso, tutti i media nell'arte tendono a parlare di se stessi, della loro storia e delle condizioni contemporanee. Il cinema analogico sembra più fortemente legato ai suoi macchinari rispetto al digitale. Utilizzi i proiettori come elementi scultorei nelle installazioni o sono solo parte del necessario apparato di rappresentazione?

RB - Per me è molto importante far dialogare immagini proiettate e linguaggio ricordato, oggetti materiali e immaginari, in un dialogo oppositivo e conflittuale. Le opere speculano sulla natura del documento non solo come versione definitiva, ma come presente della riflessione: non si tratta tanto di un atto di traduzione quanto della continua trasposizione del materiale in immagine e viceversa. Il proiettore è un agente nello spazio e fa parte di questo dialogo. Nei miei oggetti decostruisco i macchinari finché non raggiungono lo status necessario per l'oggetto.

D - Che ruolo ha il suono nel tuo lavoro?

RB - Il suono ha un ruolo molto importante per me. Per tutti i miei film, registro i suoni dello spazio reale durante le riprese, ma effettuo anche registrazioni aggiuntive del luogo esatto e dei suoi immediati dintorni. Alcuni suoni sono quasi impercettibili per noi, e in seguito ne rafforzo alcuni aspetti nella composizione, ad esempio il rimbombo di un tubo. Consegno tutto questo materiale al compositore e musicista Jan St. Werner, un collaboratore di lunga data. Lui propone una composizione durante il mio processo di editing. Altri suoni vengono creati e mescolati alla colonna sonora esistente. È come uno strato narrativo completamente separato che inizia una conversazione con le immagini all'interno del lavoro.

D - Qual è l'elemento che definisce la rappresentazione fotografica, l'obiettivo o il processo chimico?

RB - È la luce e il suo tempo.

D - Quali sono gli artisti o i registi che più hanno influenzato il tuo lavoro? È rilevante per te separare il cinema e l'arte visiva come forme d'arte diverse?

RB - Guardando alle forme d'arte in modo classico, sono tutte forme d'arte diverse. Nel mio caso, non riesco a separare il cinema dall'arte visiva, perché mi muovo continuamente tra di esse e le fondo insieme. Sono influenzata dalla letteratura, dalla fantascienza, dall'arte concettuale e dai film d'avanguardia.

Rosa BarbaThe Empirical Effect, 2010 Film still.


The Empirical Effect

Il Vesuvio e gli abitanti di Ottaviano, paese alle pendici del vulcano, sono i protagonisti di The Empirical Effect, 2010, film in cui si mette in scena un’esercitazione di evacuazione, che nella realtà non ha mai avuto luogo. In un susseguirsi frammentario di immagini, vedute del vulcano si alternano a scene della fuga immaginaria e a riprese di incontri onirici all’interno di un edificio abbandonato – un osservatorio vicino al cratere –, includendo anche un estratto in bianco e nero di un film girato dai fratelli Lumière a Napoli, in un continuo cambio di genere, passando da quello documentaristico alla narrazione fantastica.
Le figure coinvolte sono superstiti dell’ultima eruzione del Vesuvio del 1944 che vivono nella cosiddetta “zona rossa”. Ne emerge il ritratto di una popolazione in perenne stato di allerta tra il ricordo della devastazione passata e la presenza di un imminente pericolo. E sono proprio le voci dei protagonisti a costituire la traccia sonora del film, instaurando un dialogo poetico tra il paesaggio densamente edificato e i suoi abitanti. Il film ambientato intorno al Vesuvio incarna il labile confine tra fatti reali e immaginari, un aspetto che connota una produzione filmica d’artista.

D - The Empirical Effect (2010), racconta come la vita continui accanto al vulcano nonostante la minaccia che tutto possa essere distrutto da un'eruzione in qualsiasi momento. Quindi il paesaggio è un documento che si cancella.

RB - Ho iniziato a pensare al progetto del Vesuvio molti anni prima di realizzare l'opera, perché ero affascinata dall'idea di una popolazione ad alta densità di circa 600.000 persone che viveva nella zona di pericolo di un vulcano altamente imprevedibile. L'ultima eruzione risale al 1944. Molti anziani dicono che il vulcano è ormai morto dopo i bombardamenti americani e che quindi non succederà nulla. Altri sono molto spaventati e usano gli animali che tengono come sismografi viventi. Quando ho iniziato a lavorare con i vulcanologi locali e a conversare con loro, ho sentito parlare di un piano per organizzare un'esercitazione di evacuazione di massa per verificare se sia davvero possibile evacuare 600.000 persone dalla zona in una settimana. Le autorità hanno persino preparato dei moduli per consentire ai residenti di indicare le loro preferenze per l'evacuazione in barca o in aereo e così via.
Ho pensato: "Mio Dio, questa settimana di evacuazione sarebbe stata un'ambientazione incredibile per un film", così mi sono messa in contatto con il Ministero degli Interni a Roma e ho chiesto un finanziamento per girare un film che si svolgesse in concomitanza con l'evacuazione. Ma ogni volta che iniziavo a pianificare la data delle riprese mi dicevano: "Oh, è stata cancellata, la faremo più tardi". La cosa andava avanti e dovevo sempre dire al fondo cinematografico: "Mi dispiace, non posso girare quest'anno, l'evacuazione è stata rimandata".
Poi uno dei vulcanologi mi ha chiamato e mi ha detto: "Senti, non succederà mai, continuerà a essere rimandata. In ogni caso, è impossibile. I ponti sono troppo bassi per far passare anche un camion dei pompieri. Così ho capito che si trattava di un'altra montatura per far sentire la gente al sicuro. La vita normale è sospesa nella zona a causa dell'imprevedibilità. Per esempio, la camorra si nasconde vicino al vulcano perché è una specie di zona franca, visto che è così volatile. E c'è un'intensa attività di produzione illegale con gli immigrati cinesi. C'è un filmato che racconta come ai lavoratori cinesi non sia permesso morire lì. Devono essere trasportati via prima di morire, come se non fossero mai esistiti.
Da un lato il vulcano è come una bomba a orologeria, dall'altro ci sono tutte queste storie e tempi nascosti che si spostano intorno come soggetto. Quando ho iniziato a pensarci in questo modo, ho capito che volevo creare io stessa l'evacuazione. Ho chiesto a un villaggio popolato per lo più da malavitosi se avrebbero partecipato a un'evacuazione per il film. In effetti, ad esempio, molte persone hanno partecipato alla scena in cui gli abitanti del villaggio aprono le finestre per prendere un po' di "aria fresca".

D - Ciò che trovo straordinario qui non è tanto il parallelo visivo tra le opere quanto il formato delle riprese dall'alto.

RB - Ciò che mi piace della fotografia aerea è che mi permette di creare immagini sospese. Perdiamo gli indizi che ci permettono di capire quanto è grande una cosa o quanto siamo vicini ad essa, quindi offre un altro punto di vista su come rappresentare e percepire le immagini. Sento un legame con le culture antiche che inscrivevano nel paesaggio disegni che dovevano essere visti dall'alto e che potevano essere compresi solo da una vista aerea, cosa che all'epoca sarebbe stata possibile solo per un dio. C'è una certa anarchia in questa prospettiva che ci permette di guardare liberamente.

Rosa BarbaRosa Barba, 2017 Pirelli HangarBicocca Milano


Rosa Barba
Nata in Italia, attualmente vive e lavora a Berlino. Ha studiato presso l'Accademia di Arti Multimediali di Colonia, seguita da una borsa di studio presso la Rijksakademie van Beeldende Kunsten di Amsterdam; ha completato il suo dottorato di ricerca con il titolo "On the Anarchic Organisation of Cinematic Spaces: Evoking Spaces beyond Cinema" presso la Malmö Faculty of Fine and Performing Arts, Lund University nel 2018. Rosa Barba è impegnata con il mezzo cinematografico attraverso un approccio scultoreo. Nelle sue opere, Barba crea installazioni e interventi site-specific per analizzare i modi in cui il film scandisce lo spazio, ponendo l'opera e lo spettatore in una nuova relazione. Le questioni della composizione, della fisicità della forma e della plasticità giocano un ruolo importante per l'artista, che esamina l'industria del cinema e la sua messa in scena in relazione al gesto, al genere, all'informazione e ai documenti. Le sue opere cinematografiche si collocano tra il documentario sperimentale e la narrativa di finzione. Spesso si concentrano su paesaggi naturali e interventi dell'uomo sull'ambiente ed esplorano il rapporto tra documenti storici, aneddoti personali e rappresentazione cinematografica, creando spazi di memoria e indeterminazione.
Le opere di Rosa Barba sono state esposte in prestigiose istituzioni e biennali di tutto il mondo: Centre de Création contemporaine Olivier Debré, Tours (2022), Cukrarna, Lubiana (2021, 2022), Neue Nationalgalerie, Berlino (2021-2022); Yokohama Triennial (2020); Wäinö Aaltonen Museum of Art, Turku, Finlandia (2020); CCA Kitakyushu (2019); Armory Park Avenue, New York (2019); Kunsthalle Bremen (2018); Remai Modern, Saskatoon (2018); Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Palacio de Cristal, Madrid (2017); Pirelli HangarBicocca, Milano (2017); Secessione di Vienna (2017); Malmö Konsthall (2017); CAPC musée d'art contemporain de Bordeaux (2016); Schirn Kunsthalle, Francoforte (2016); Albertinum, Dresda (2015) e al MIT List Visual Arts Center, Cambridge, MA (2015). Barba ha partecipato alla 7ª Triennale di Beaufort, Belgio (2021); alla 32ª Biennale di San Paolo (2016); alla 53ª e 56ª Biennale di Venezia: Making Worlds (2009, a cura di Daniel Birnbaum); All the World's Futures (2015, a cura di Okwui Enwezor); 8ª Biennale d'arte contemporanea di Berlino (2014); 19ª Biennale di Sydney (2014); Performa, New York (2013); Biennale internazionale d'arte contemporanea di Cartagena de Indias, Colombia (2014) e Biennale di Liverpool (2010).

 

Rosa Barba
Festival Talk Accademia di Belle Arti di Firenze Rosa Barba in conversazione con Roberta Tenconi
Lo schermo dell’arte Focus on 2022 CanGo - Cantieri Goldonetta di Firenze
Site Lo schermo dell'arte 15th Edition
@ 2023 Artext

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