Simone Leigh
Sovereignty
Works in the Exhibition
Simone Leigh:
Sovranità presenta una nuova serie di opere create per il padiglione degli Stati Uniti.
L’ampia produzione artistica di Leigh, caratterizzata dall’interesse per la performatività e la manifestazione emotivo-corporea, analizza la costruzione della soggettività femminile nera. Le sue sculture di grandi dimensioni uniscono forme tratte dall’architettura vernacolare e dal corpo femminile, rese in prassi e materiali legati alle tradizioni artistiche dell’Africa e della diaspora africana. Sovranità mescola storie e narrazioni disparate, come quelle relative alle performance rituali del popolo Baga della Guinea, alla prima cultura materiale americana nera del distretto di Edgefield nella Carolina del Sud e alla storica Esposizione coloniale di Parigi del 1931. Con la nuova serie di opere in bronzo e ceramica, esposte all’interno e all’esterno del padiglione, Leigh interviene in modo creativo a colmare le lacune della memoria storica proponendo nuove tipologie di ibridi.
Nel loro complesso le opere esposte in Sovranità ampliano l’indagine dell’artista sul tema dell’autodeterminazione. Il titolo della mostra si riferisce ai concetti di autogoverno e indipendenza individuale e collettiva: essere sovrani significa non essere soggetti all’autorità, ai desideri o allo sguardo altrui, ma essere autori della propria storia. Molte sculture esposte mettono in discussione l’estrapolazione di immagini e oggetti derivanti dalla diaspora africana e la loro diffusione come souvenir al servizio delle narrazioni coloniali. Per quanto presentino i soggetti come autonomi e autosufficienti, le opere figurative di Leigh non vogliono semplicemente celebrare la capacità delle donne nere di superare circostanze vessatorie, ma mettono sotto accusa le condizioni che tanto spesso le costringono ad affermare la propria umanità. Riconoscendo all’opera di Leigh la capacità di articolare una visione di ampio respiro dell’esperienza femminile nera, la studiosa e scrittrice americana a Saidiya Hartman ha definito l’approccio dell’artista al femminile nero “un’architettura della possibilità”.
La “fabulazione critica” concepita da Hartman, una strategia che invita storici, artisti e critici a riempire creativamente le lacune della storia, offre un contesto importante per avvicinarsi alle opere. “Per raccontare la verità”, suggerisce Leigh, “bisogna inventare quel che può mancare nell’archivio, far collassare il tempo, occuparsi di questioni di dimensione, cambiare le cose dal punto di vista formale in modo da rivelare qualcosa di più autentico dei fatti”.
La mostra concepita da Leigh si articola oltre il padiglione degli Stati Uniti in un incontro, a ottobre 2022, di studiose, performer, scrittrici e artiste nere organizzato da Rashida Bumbray:
Loophole of Retreat: Venice (La scappatoia del rifugio: Venezia). Il progetto riflette l’ethos collaborativo tipico della prassi artistica di Leigh, e rende omaggio alla lunga storia di collettività, condivisione e cura delle donne nere.
Pavilion of United States of America, Simone Leigh, Façade and Satellite, 2022. Photo by Timothy Schenck.
Facciata, 2022
Paglia per coperture, acciaio e legno
Dimensioni variabili
Guardando al padiglione degli Stati Uniti come a una scultura, Leigh ne trasforma l’architettura con l’installazione di una copertura in paglia sulla facciata dell’edificio, che va a somigliare a un palazzo dell’Africa occidentale degli anni Trenta. L’intervento di Leigh introduce forme e materiali contrastanti,
che hanno una propria storia e interagiscono con l’edificio neoclassico originale.
Facciata si rifà alla storica Esposizione coloniale di Parigi del 1931 e alla sua perdurante eredità nel panorama culturale della metà del secolo. Ricreando efficacemente un progetto colonialista che era ancora in corso, la Francia allestisce la mostra per esibire le culture e i popoli dei paesi allora sotto il controllo coloniale1. L’Esposizione include una ricostruzione in scala reale del tempio Khmer di Angkor Wat e di alcuni villaggi modello che, popolati da gruppi di persone trasferiti dalle loro terre di origine, sembrano zoo umani. Parigi negli anni Trenta è un centro vibrante e interculturale di produzione letteraria e artistica, e la mostra divenne il punto di incontro tra movimento surrealista, Négritude e i modernisti: artisti, scrittori e attivisti dell’epoca criticano aspramente l’Esposizione e il Partito Comunista francese, in collaborazione con i surrealisti, organizza una contro-esposizione,
La Verité sur les Colonies (La verità sulle Colonie)2.
Il nascente movimento Négritude, fondato dai poeti Aimé Césaire e Léopold Sédar Senghor, influenzati dalle teorie filosofiche delle sorelle martinicane Paulette e Jeanne Nardal, contesta con forza i principi di diversità razziale sbandierati dall’Esposizione coloniale di Parigi3. Molti degli edifici presentati nell’Esposizione vengono progettati da architetti francesi in collaborazione con altri provenienti dalle nazioni colonizzate: le loro costruzioni ibride influenzano profondamente gli architetti modernisti, tra cui Le Corbusier.
I Giardini di Venezia ricordano una fiera mondiale: ospitano dozzine di padiglioni nazionali, simboli degli ideali nazionali di ciascun paese. Il padiglione degli Stati Uniti, disegnato da William Adams Delano e Chester Holmes Aldrich, viene inaugurato proprio al culmine del periodo delle leggi Jim Crow, negli
Stati Uniti, e della crescita di antisemitismo e fascismo in Europa. Il padiglione ricorda Monticello, la piantagione di Thomas Jefferson, esempio di architettura ispirata all’architetto rinascimentale Andrea Palladio, autore di molti edifici a Venezia4. L’installazione di Leigh, che mescola e ripensa forme architettoniche storiche contigue e narrazioni provenienti da aree geografiche tra loro lontane, propone una nuova prospettiva sulla storia dell’architettura.
Pavilion of United States of America, Simone Leigh, Façade and Satellite, 2022. Photo by Timothy Schenck.
Satellite, 2022
Bronzo
7,3 × 3 × 2,3 m
Al centro del cortile esterno si erge
Satellite, una scultura composta che si rifà a forme ricche di riferimenti culturali. L’opera ricorda un tradizionale D’mba (detto anche nimba), maschera a spalla a forma di busto femminile creata dalle popolazioni Baga della costa della Guinea, usata durante le cerimonie rituali per comunicare con gli antenati. Le sculture e maschere africane, inclusi i D’mba, affascinano i modernisti europei come Pablo Picasso, che ne possiede uno5. Questo interesse è tipico dell’atteggiamento colonialista, che apprezza gli oggetti per ragioni estetiche invece che per le loro funzioni originali e li considera al servizio del canone storico-artistico europeo. Il D’mba è uno degli oggetti più riconoscibili della storia dell’arte africana; un ottimo esempio è conservato nella vicina Collezione Peggy Guggenheim.
Opera monumentale in bronzo,
Satellite presenta il corpo in scala architettonica: le gambe divengono colonne, la figura è così alta da permettere ai visitatori di passare al di sotto, dove si crea uno spazio intimo. Al posto della testa del copricapo tradizionale D’mba Leigh inserisce un’antenna satellitare fusa in bronzo che, alludendo alla capacità di trasmettere e ricevere, richiama la funzione del D’mba come canale di comunicazione.
Pavilion of United States of America, Simone Leigh, Last Garment, 2022. Photo by Timothy Schenck
Last Garment, 2022
Bronzo e metallo
Due parti, 137,2 × 147,3 × 68,6 cm
(figura) e dimensioni variabili (vasca)
Nella prima sala del padiglione una scultura in bronzo che raffigura una lavandaia al lavoro, L’ultimo indumento, si riflette in una grande vasca. L’opera fa riferimento a una fotografia della fine dell’Ottocento scattata in Giamaica dal fotografo C. H. Graves, dal titolo
Mammy’s Last Garment (L’ultimo indumento di Mammy). Cartoline con immagini simili svolgono un ruolo chiave nel propagare gli stereotipi creati dalla crescente industria del turismo caraibico anglofono che, spinto dal governo coloniale britannico, pubblicizza la Giamaica come “paradiso tropicale”6.
Le immagini del popolare tropo della lavandaia hanno ampia diffusione e raffigurano gli abitanti dell’isola come “leali, disciplinati, puliti”7 per incoraggiare i viaggiatori bianchi a visitare le Indie Occidentali britanniche. Immagini iconiche come questa fanno parte dell’economia visiva che costruisce un’idea di Giamaica così come immaginata dai suoi colonizzatori e perpetua il mito del “nobile selvaggio”, promuovendo una visione idealizzata e sentimentale della gente colonizzata che finisce per rappresentare la pura espressione della virtù umana non corrotta dalla civiltà.
Il souvenir della lavandaia esemplifica il desiderio da parte dei turisti bianchi di controllare, possedere, tenere e toccare una immagine dell’“altro”. Immagini di questo tipo, spesso create senza il pieno consenso della persona raffigurata, testimoniano la mancanza di autonomia dei soggetti o di sovranità sulle proprie rappresentazioni. Leigh contrappone a questo impulso voyeuristico un altro concetto di tocco, che si manifesta sia nella forma che nella realizzazione della scultura. Prima di fondere l’opera in bronzo infatti Leigh scolpisce L’ultimo indumento in argilla, lavorando sia a partire dalle fotografie che dal vivo, con una modella vestita in abiti dell’epoca8. Inoltre scolpisce a mano nell’argilla, prima di fonderle in bronzo, ciascuna delle oltre ottocento rosette che compongono la capigliatura della figura.
Pavilion of United States of America, Simone Leigh, Jug and Anonymous, 2022. Photo by Roberto Marossi
Brocca e Anonima, 2022
Brocca, 2022
Grès smaltato
158,8 × 103,5 × 116,2 cm
Anonima, 2022
Grès smaltato e bronzo, in due parti:
184,2 × 135,9 × 109,9 cm (figura), 298 ×
154,9 × 129,5 cm (tavolo). Dimensioni
complessive variabili
Anonima riprende un’immagine del 1882 scattata da James A. Palmer, fotografo che produsse migliaia di immagini della “vita nelle piantagioni del Sud”, nella Carolina del Sud e in Georgia9. La fotografia di Palmer, intitolata
The Wilde Woman of Aiken, ritrae una donna nera seduta a un tavolo su cui è posata una brocca Edgefield a forma di faccia che sorregge un grande girasole. La brocca della fotografia è la prima immagine nota di un vaso facciale, un tipo di oggetto realizzato da afroamericani, sia liberi che schiavi, negli stati del Sud, in particolare nel distretto di Edgefield in Carolina del Sud, regione rinomata per la produzione di stoviglie in grès10. Questi enigmatici vasi facciali servivano forse per pratiche rituali o religiose, oppure erano oggetti codificati che mascheravano significati segreti11. Palmer, che viveva nel distretto di Edgefield, conosceva bene i vasi facciali ma non ne comprendeva la complessità di riferimenti storici o i loro usi. La sua fotografia razzista vuole essere una satira rivolta a Oscar Wilde, una contestazione della teoria estetica del poeta
secondo cui qualsiasi cosa può essere bella12.
Leigh traspone la modella anonima della piccola fotografia in dimensioni più che umane e la colloca vicino a Brocca, che si discosta significativamente dai vasi tradizionali, soprattutto per le misure. Sulla superficie della brocca sono applicate forme simili a conchiglie di ciprea, che hanno le dimensioni e la forma delle angurie che l’artista usa come stampi.
Pavilion of United States of America, Simone Leigh, Sentinel, 2022. Photo by Timothy Schenck
Sentinel, 2022
Bronzo
492,8 × 99,1 × 59,1 cm
Sentinella si erge al centro della rotonda del padiglione degli Stati Uniti ed è una citazione di un importante genere di opere d’arte africane diasporiche, quello dei cosiddetti bastoni di potere. Nelle loro diverse forme, molte delle quali antropomorfe, i bastoni di potere ricoprono un ruolo essenziale nella vita spirituale e si crede posseggano in sé un’intrinseca energia e la conoscenza divina. La scultura di Leigh unisce una forma femminile allungata a un oggetto tradizionalmente utilizzato nei rituali di fertilità, presentando il corpo femminile come strumento o luogo di duro lavoro e consumo.
Il titolo dell’opera indica l’atto di vigilare e assegna alla figura il ruolo di presenza vigile all’interno della mostra.
Simone Leigh and Madeleine Hunt-Ehrlich, Conspiracy, 2022. Video, dimensions variable. Courtesy the artists
Cospirazione e Sharifa, 2022
Simone Leigh e Madeleine Hunt-Ehrlich
Cospirazione, 2022
Video (bianco e nero, sonoro;
c. 20 minuti)
Sharifa, 2022
Bronzo
283,2 × 103,5 × 102,9 cm
La penultima sala del padiglione riunisce
Sharifa e
Cospirazione in un dialogo a “chiamata e risposta”: il video cattura alcuni aspetti della realizzazione della scultura e insieme le due opere si soffermano su narrazioni di cura, lavoro e creazione.
Sharifa è il primo ritratto mai eseguito da Leigh. Questo bronzo colossale, realizzato dal vero nelle sembianze della scrittrice Sharifa Rhodes-Pitts, è alto il doppio della modella. Appoggiata al muro, con le mani sulle cosce e lo sguardo rivolto verso il basso, Sharifa mostra un corpo a riposo, la cui postura rimanda alle strategie di rifiuto che alimentano le possibilità creative - e la necessità - dei mondi interiori delle donne nere13. In gran parte, la scultura è enigmatica e il suo significato rimane abbastanza oscuro allo spettatore. Questa opacità, in cui una parte dell’opera rimane invisibile o altrimenti inaccessibile agli spettatori14, è un espediente spesso usato da Leigh nelle sue opere, nei progetti sociali, nelle performance e nelle sculture.
Sharifa presenta due strategie formali tipiche di Leigh: l’astrazione del corpo femminile e l’evocazione del corpo come architettura. Il piede che sporge dalla gonna della figura evoca la tradizione della statuaria egiziana. Le parole premonitrici della stessa Rhodes-Pitts, scritte prima della creazione dell’opera, approfondiscono il suo doppio ruolo di soggetto e fonte:
Sotto le direttive di Simone, il mio corpo si trasforma facilmente da donna a terra, acqua, fuoco, aria, tempo. Altre amiche e collaboratrici di Leigh sono apparse proprio così, sia come se stesse sia come qualcosa che supera il sé, come fonte ed emanazione (potrei anche dire: come materiale) a creare lo spazio15.
Rhodes-Pitts appare, insieme all’artista Lorraine O’Grady, anche nel video Cospirazione, che Leigh ha realizzato in collaborazione con la regista Madeleine Hunt-Ehrlich, nata a New York nel 1987. In parte ispirato al documentario
Hands of Inge del 1962 sulla scultrice americana Ruth Inge Hardison, il video di Leigh e Hunt-Ehrlich, girato in bianco e nero su pellicola 8mm e 16mm, si concentra sulla performatività del fare e sullo studio come luogo di duro lavoro e cura. I primi piani delle mani di Leigh che prendono a pugni, raschiano, impastano e modellano l’argilla si alternano ad attente inquadrature dello studio, degli strumenti in legno e della modella, tutte rese in chiaroscuro. Le sequenze meditative del lavoro manuale di Leigh sono abbinate a una voce fuori campo che legge un brano tratto da un testo fondamentale,
Flash of the Spirit (1983) dello storico dell’arte Robert Farris Thompson, che parla dello spirito ospitato nei materiali delle tradizioni artistiche dei Kongo, e la descrizione di un bagno cerimoniale giamaicano riportata da Zora Neale Hurston nel
diario di viaggio del 1938,
Tell My Horse. Un altro elemento significativo sotteso nel video è l’album
Conspiracy (1975) di Jeanne Lee.
Pavilion of United States of America, Simone Leigh, Cupboard, Martinique, and Sphinx, 2022. Photo by Timothy Schenck
Credenza, Martinica e Sfinge, 2022
Credenza, 2022
Rafia, acciaio e grès smaltato
344,1 × 315 × 315 cm
Martinica, 2022
Grès smaltato
154,3 × 104,8 × 101 cm
Sfinge, 2022
Grès smaltato
80 × 143,5 × 95,9 cm
Il gruppo di opere riunite nell’ultima sala è concepito come un coro di figure realizzate in ceramica e rafia, due materiali da tempo fondamentali nella prassi artistica di Leigh. L’argilla è il materiale alla base della maggior parte delle sue opere, inclusi i bronzi che l’artista scolpisce dapprima in creta; Leight spinge al limite le potenzialità del materiale in quanto a dimensioni e metodo, utilizzando tecniche come la cottura con i sali in forno atmosferico. La relazione del materiale ceramico con la geologia collega l’opera di Leigh alla nascente discussione sulla geopolitica dell’Antropocene.
In
Credenza, torreggiante forma a campana coperta di rafia, l’architettura è un’estensione del corpo. L’opera richiama sia l’architettura vernacolare del Sud globale che l’abbigliamento femminile. Leigh ha identificato come punti di riferimento di queste forme a cupola l’Esposizione coloniale di Parigi del 1931, che stabilisce la capanna come immagine iconica delle colonie16; “Mammy’s Cupboard”, ristorante degli anni Quaranta a Natchez, Mississippi, che fa pensare all’atto violento di entrare nella gonna di una donna per mangiare; e il dipinto Las Meninas di Diego Velázquez, del 1656. Queste forme portano con sé potenzialità di occultamento, aggregazione e violazione, e riportano alla distinzione tra corpo e carne espressa da Hortense Spillers17.
Nella sala si manifesta un’altra forma, quella della sfinge egizia, una tra le più riconoscibili della storia antica. Nell’insieme, le opere esposte in questa sala testimoniano l’uso costante da parte di Leigh di forme e processi tradizionalmente connotati dall’identità sessuale, che potenziano la concezione essenzialista del corpo della donna nera.
Simone Leigh, Brick House, 2019, Bronze. Arsenale, ©photo ElaBialkowskaOKNOstudio
Simone Leigh, Chicago 1967, ha creato negli ultimi due decenni un ampio corpus di opere di scultura, video e performance incentrate sul mondo interiore delle donne nere. La sua prassi artistica, declinata sulle teorie del femminismo nero, interviene creativamente a colmare le lacune della memoria storica proponendo nuove tipologie di ibridi.
Le sculture di Leigh uniscono forme derivate dall’architettura vernacolare e dal corpo femminile, che l’artista realizza con materiali e prassi legati alle tradizioni artistiche dell’Africa e della diaspora africana. L’ethos collaborativo che caratterizza i video e i programmi sociali rende omaggio a una lunga storia di collettività, comunanza e cura delle donne nere.
Nel 2019 Leigh riceve la commissione che inaugura il plinto della High Line, a New York. Tra le sue mostre recenti figurano The Hugo Boss Prize 2018: Simone Leigh, Loophole of Retreat (2019) al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, la Whitney Biennial 2019, Trigger: Gender as a Tool and a Weapon (2017) al New Museum di New York, Psychic Friends Network (2016) alla Tate Exchange-Tate Modern a Londra, Hammer Projects: Simone Leigh (2016–17) all’Hammer Museum di Los Angeles, inHarlem: Simone Leigh (2016–17), un’installazione pubblica presentata da The Studio Museum in Harlem al Marcus Garvey Park di New York, The Waiting Room (2016) al New Museum of Contemporary Art di New York e Free People’s Medical Clinic (2014), progetto commissionato da Creative Time. Le opere di Leigh sono presenti, tra le altre, nelle collezioni del Whitney Museum of American Art di New York, del Solomon R. Guggenheim Museum di New York, dell’Art Institute of Chicago, del Cleveland Museum of Art, dell’Hammer Museum di Los Angeles e dell’ ICA/Boston.
Le opere che compongono la mostra di Leigh al padiglione degli Stati Uniti verranno esposte nella sua prima rassegna museale, che si terrà all’ ICA nel 2023 e che sarà successivamente presentata in vari musei degli Stati Uniti. La mostra sarà accompagnata dalla prima monografia esaustiva dedicata all’opera di Leigh.
Simone Leigh, Cupboard, 2022, Bronzo. Arsenale, Photo by Roberto Marossi
Note
1. Alla mostra organizzata dalla Francia a Parigi, al Bois de Vincennes, partecipano molti altri paesi, tra cui Olanda, Belgio, Italia, Giappone, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti.
2. Jody Blake, The Truth about the Colonies, 1931: Art Indigène in Service of the Revolution, “Oxford Art Journal” 25, n. 1 (giugno 2002), p. 38.
3. H. Adlai Murdoch, Aimé Césaire, the Colonial Exhibition, and the Modernity of the Black Atlantic, “International Journal of Francophone Studies” 14, n. 1–2
(maggio 2011), pp. 58–60.
4. Marco Mulazzani, Guida ai padiglioni della Biennale di Venezia dal 1887, Electa Architettura, Milano 2017, p. 12.
5. Ellen McBreen, La migrazione degli oggetti: dal creatore al museo, in Vivien Greene, a cura di, Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim, Marsilio/Peggy Guggenheim Collection, Venezia 2021, p. 23.
6. Krista Thompson, An Eye for the Tropics: Tourism, Photography, and the Framing of the Caribbean Picturesque, Duke University Press, Durham, NC 2006, p. 4.
7. Thompson osserva che la lavandaia è tra i tropi più popolari atti a radicare nei turisti bianchi l’idea di “nativi puliti” e “civilizzati” in An Eye for the Tropics, p. 6.
8. Durante la realizzazione dell’opera la costumista Niki Hall ha svolto ricerche sull’abbigliamento del periodo, procurandosi indumenti simili a quelli indossati dalla donna nella fotografia.
9. “‘The Wilde Woman of Aiken,’ from the ‘Aiken and Vicinity’ series 1882”, Metropolitan Museum of Art, 22 dicembre 2021, https://www.metmuseum.org/art
/collection/search/814626.
10. Per approfondimenti si veda Claudia Arzeno Mooney, April L. Hynes e Mark M. Newell, African-American Face Vessels: History and Ritual in 19th-Century Edgefield, “Ceramics in America”, a cura di Robert Hunter (2013) pp. 2–37.
11. “Face Jugs: Art and Ritual in Nineteenth-Century South Carolina”, Chipstone, 22 dicembre 2021, http:// www.chipstone.org/exhibitionframe.php/5/Face-Jugs/.
12. Per approfondimenti si veda Robin Coste Lewis, The Wilde Woman of Aiken, “Translation” n. 109 (2012) pp. 33–42.
13. Leigh cita l’autobiografia di Harriet Jacobs, Incidents in the Life of a Slave Girl, del 1861 (Vita di una ragazza schiava, 2004), in numerose opere, in particolare in Loophole of Retreat: Venice (si veda a p. 18 in brochure).
14. Édouard Glissant discute il diritto all’opacità in Poetics of Relation, University of Michigan Press, Ann Arbor 1997.
15. Sharifa Rhodes-Pitts, “Simone Leigh: For Her Own Pleasure and Edification”, The Hugo Boss Prize 2018, a cura di Susan Thompson, Solomon R. Guggenheim Museum, New York 2018, s.p.
16. Per un’analisi di questa storia dell’architettura, si veda Steven Nelson, “A Pineapple in Paris” in From Cameroon to Paris: Mousgoum Architecture in & out of
Africa, University of Chicago Press, Chicago 2007, pp. 98–146.
17. Si veda Hortense Spillers, Mama’s Baby, Papa’s Maybe: An American Grammar Book, “Diacritics 17”, n. 2 (estate 1987), pp. 64–81.
Padiglione Stati Uniti alla 59. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia