Aura Luce Mondo
Artext - Notazioni
La materia è la luce.
Il numinoso, dentro e fuori da sempre costituisce fondamento a riflettere.
Sulla cura come struttura esistenziale, costitutiva, dell’essere che noi siamo.
E la ricerca di senso, di cui parliamo non poco, non solo perché il senso di per sé ama nascondersi, ma soprattutto perché viviamo nel nonsenso.
Parlare del buio. Del buio in fondo alla luce, che la genera e sostiene.
E che sempre l’accompagna. Perché questo dice il linguaggio del sistema solare, del cosmo, che si dipana tra due misteri (la luce e il buio).
E nei cicli dell’anno, trova proprio nell’allungarsi delle tenebre, la rigenerazione della luce. E così ogni volta. A giugno sarà il contrario.
Questione complessa quella della luce nelle arti visive e performative là dove questa entra in rapporto con forme atmosferiche e pulviscolari.
Sentire la luce esplorare le relazioni tra luce e oscurità, spazio condiviso e dissolvenze atmosferiche.
C’è in essa verità, che ha un senso, che è il pathos - non è né patetico né patologico, né ancora disagio endogeno e privato, ma una condizione del tutto sintonizzata con la realtà del mondo – poiché è anche sconvolgente, il mondo, e smisurato.
Onorando il pathos, la paura, l’orrore del buio, dell’ombra, in vario modo le nostre pratiche ne propongono la lavorazione, l’attraversamento. E lo fanno offrendo protezione e misura a chi guarda in faccia l’abisso. Oltre il rito che sempre sorge intorno a questioni infine legate alla sostenibilità della vita.
Ristabilendo l’evidenza che la luce è la materia del reale e informa ciò che è aura (santità) -
“Quale radice della realtà spirituale di ciò che può essere raffigurato, non si può non vederne l’immagine luminifera sovramondana, il sembiante luminoso, l’idea”.
Un'eclissi della parola che «ha a che fare, forse, proprio con l'ombra, con la quantità di ombra che il linguaggio porta con sé nel suo medesimo far luce».
E' l'opaco – il desiderio di vedere – a produrre fantasmi e narrazioni, l'ombra a generare immaginazione – ne siamo stati testimoni nella caverna – un caleidoscopio di manìe, fantasie: le forme del conoscere.
Così, gettàti originariamente nel conflitto del linguaggio, non ci rimane che la cura della sua parte in ombra, quella, nel mistero che disvela appena la parola, perché se ne intuisca la verità.
Il narrare è positura della voce che scardina il linguaggio, e, forzandone i limiti, conduce alla sua soglia: lì dove la parola a vista prende corpo (si fa carne) 'vive dell'inquieto' e diviene 'conoscenza radicale del proprio tempo'.
Luce Materia Energia
Valeria D'Ambrosio
La materia è la luce perché la luce è materia. È energia, certo, un’energia infinitamente in corsa che attraversa lo spazio recando in sé tracce del tempo. Ma è anche materia, quella materia dura e lucente “come una lama d’acciaio” a cui Antonia Pozzi paragona i lampi nelle sue notti tormentate.
(1) È il bagliore invadente della luna, “questa faccia distolta dal sole”
(2) che bussa alla sua finestra in una sera d’aprile: per pensarla non serve vederla, la sua è una presenza fisica, materiale, “stupita” e “sola”.
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Poco più di un anno fa, in visita al Museo della Specola di Bologna, mi imbatto in immagini bellissime. L’autrice è Maria Clara Eimmart di Norimberga, illustratrice del cosmo, che imparò il mestiere dal padre, pittore di successo, incisore ed astronomo dilettante. Nell’osservatorio di famiglia, Eimmart divenne una disegnatrice minuziosa di tavole astronomiche, in particolare di comete, macchie solari, eclissi e montagne lunari che furono frutto di accurate osservazioni e che divennero, ben presto, strumenti di vitale importanza per la comunità scientifica europea, che non aveva ancora a disposizione la fotografia. Tra il 1693 e il 1698, Eimmart eseguì più di 250 disegni delle fasi lunari, grazie alla diffusione del cannocchiale perfezionato da Galileo Galilei, che aveva permesso un’osservazione magicamente ravvicinata di quei corpi celesti, custodi di luce. Spicchi luminosi dipinti a mano su cartoncini blu cobalto, cartoline dallo spazio.
Maria Clara Eimmart, Fase lunare osservata il 29 agosto 1697, Museo della Specola, Università di Bologna
Nel 1640, poco prima di morire isolato nella sua dimora di Arcetri, Galileo ormai cieco detterà una lettera indirizzata al
colendissimo Principe Leopoldo di Toscana, per informarlo delle sue teorie sul candore dell’astro più amato da artisti e poeti.
Sul candore della Luna è un testo in cui Galileo confuta le tesi di Fortunio Liceti sulla natura della luce secondaria della luna. È il suo ultimo trattato, intriso di un’enfasi che a volte si tratteggia di ironia e a volte sembra infondersi di una disperazione che fa trasparire la condizione di un occhio amareggiato, “il più nobil occhio che abbia mai fabbricato la natura” –come scrisse il monaco Benedetto Castelli, matematico, fisico e a lungo braccio destro di Galileo. Un occhio che aveva saputo guardare oltre ogni limite imposto dal mondo del suo tempo e che, per ironia della sorte, era ormai affetto da cecità. Ma soprattutto la disperazione della condizione di una mente ingabbiata, costretta a difendersi da accuse infondate, declinando le sue teorie sotto forma di una lettera indirizzata a un potente, nella speranza che fosse lui stesso, dall’alto del suo potere, a diffondere il sapere dello scienziato toscano. “Si può dire, e con verità, ch’egli abbia visto più egli solo che tutti gli occhi insieme degli uomini passati, ed abbia aperto quelli de’ futuri”, continua Castelli.
Ha valore scientifico questa lettera. Il candore non è dato dalla presunta materia luminescente di cui sarebbe fatta la luna, ma semplicemente dalla riflessione dei raggi solari sulla Terra che arrivano ad illuminare la superficie lunare: in altre parole, un chiaro di luna che sulla luna diventa un
chiaro di Terra. Oggi possiamo studiare il nostro pianeta osservando il suo riflesso: l’intensità della luce che la Terra riflette dipende dalla copertura nuvolosa che influenza il colore, dunque la
riflettanza della luce e, di conseguenza, il candore lunare. Ma c’è un valore tutto letterario nelle parole di Galileo intorno al nostro satellite, che ho scoperto tramite Italo Calvino che cita Leopardi in
Lezioni americane del 1985: “Giacomo Leopardi a quindici anni scrive una
Storia dell’astronomia di straordinaria erudizione… La contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi più belli non era solo un motivo lirico; quando parlava della luna Leopardi sapeva esattamente di cosa parlava… In un primo momento volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature d’ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare”.
Fu proprio Leopardi a fare di Galileo un modello della letteratura italiana. Leopardi scopre Galileo negli studi scientifici giovanili e lo tiene in grande considerazione appunto nella
Storia della Astronomia (1813) e per tutta la sua maturazione filosofica e letteraria. In una annotazione dello Zibaldone del 6 gennaio 1827, Leopardi scrive: “Non so se io m’inganno, ma certo mi par di scorgere nella maniera sì di pensare sì di scrivere del Galileo un segno e un effetto del suo esser nobile. Quella franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla, sicura e non forzata, la stessa non disaggradevole e nel tempo stesso decorosa sprezzatura del suo stile, scuoprono una certa magnanimità, una estimazione e fiducia lodevole di se stesso, una generosità d’animo, non acquisita col tempo e la riflessione, ma quasi ingenita…” Ma è nella
Crestomazia della prosa italiana (1827) che traspare l’apprezzamento di Leopardi. È infatti in quei 16 brani tratti dalle opere di Galileo Galilei che si ritrova la più alta sintonia con il pensiero dello scienziato.
Col cannocchiale Galileo vide la luna “così vicina come distasse appena due raggi terrestri” e scoprì che era rugosa, non perfetta. Il
Sidereus Nuncius (1620), l’annuncio astronomico sulle “cose mai finora vedute”, si apre, infatti, con la prima cosa che lo scienziato osservò puntando il cannocchiale verso il cielo: “Bellissima cosa e mirabilmente piacevole, vedere il corpo della Luna [...] e quindi con la certezza della sensata esperienza chiunque può comprendere che la Luna non è ricoperta da una superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale e, proprio come la faccia della Terra, piena di grandi sporgenze, profonde cavità e anfratti.” Quando poi a Calvino gli fu chiesto perché credeva che Galileo fosse “il più grande scrittore italiano”, lui rispose: “Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica. Leggendo Galileo mi piace cercare i passi in cui parla della Luna: è la prima volta che la Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, che viene descritta minutamente come cosa tangibile, eppure appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione, di levitazione: ci si innalza in un’incantata sospensione. Non per niente Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto. L’ideale di sguardo sul mondo che guida anche il Galileo scienziato è nutrito di cultura letteraria. Tanto che possiamo segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti linee di forza della nostra letteratura.”
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Galileo Galilei, Fasi lunari (1609), acquerello per il Sidereus Nuncius, Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze
Con Galileo la luce si fa cosa tangibile e viva, come viva è l’oscurità fenomonelogica da cui proviene. Un’oscurità, mi viene da pensare, necessaria alla vita, in cui viaggiano infinite informazioni in un movimento continuo e incessante. Per meglio dire, messaggi, molti dei quali ancora indecifrati, trasportati dai messaggeri cosmici, particelle fantasma, silenziose, inafferrabili e spesso invisibili, che provengono da fonti più o meno remote, come il Sole, le stelle lontane, i buchi neri fino all’espansione primordiale che ha dato origine all’universo. È così che il tempo entra, come una sorta di collante, nella materialità della luce. Perché il più antico dei messaggeri (quello che potremmo definire primordiale poiché visibile anche ad occhio nudo senza la necessità di strumenti ottici) è il fotone, traghettatore di luce. Facile ritrovare nello studio di queste particelle celesti delle suggestioni immaginifiche. Ha una duplice natura la luce, corpuscolare e ondulatoria, particella e onda, dualità che prima della meccanica quantistica era considerata un paradosso e che invece oggi si spiega “semplicemente” osservando che la radiazione si comporta come un’onda quando si propaga nello spazio, ma come una particella quando interagisce con la materia. Mi piace pensare che il fotone sia la particella dalla vita infinita: può essere creato e distrutto dall’interazione con altre particelle, ma non può decadere spontaneamente – in altre parole, se non trova ostacoli lungo il suo percorso, il fotone può continuare a viaggiare nello spazio-tempo indefinitamente, procedendo dritto per la sua strada. Per questo motivo, è possibile tutt’ora rilevare i fotoni emessi nelle prime fasi di vita dell’universo, che formano la cosiddetta
Radiazione cosmica di fondo, residuo fossile delle prime fasi di vita, il cui studio ci fornisce dati preziosissimi sulla composizione, la geometria e la velocità di espansione dell’universo. Tutto avvenne poco più di 13 miliardi di anni fa, in un cosmo caldo e denso, l’energia della luce, d’improvviso, si trasformò in materia primordiale. Finché esisterà l’oscurità da cui provengono questi messaggeri, la luce non potrà mai finire.
Maeva Ferreira Da Costa, Bruit de fond (2023), installazione multimediale, Villa Galileo (dettaglio) – ph. Giulia Lenzi
Dunque, la luce è eterna e produce materia. Non può essere un caso allora che dall’interazione tra luce e materia possiamo oggi misurare il tempo con una precisione tale da aprirci alle infinite possibilità ancora inesplorate della scienza. Uno degli esperimenti più celebri, diventato un classico per la sua chiarezza nell’esprimere enigmi quantistici come la dualità onda-particella della luce o i principi di indeterminazione e sovrapposizione, è quello della doppia fenditura effettuato per la prima volta nel 1801 da Thomas Young. Esperimento fatto di sorgenti monocromatiche, di superfici illuminate e zone d’ombra, di chiari e di scuri, di onde che si sovrappongono. Un’opera d’arte, insomma, in cui il passaggio di fotoni attraverso una doppia soglia “mistica” ci permette di percepire la luce scomposta in fotoni che, in un gioco di colori che vibrano alla stessa frequenza in perfetto entanglement, creano un sistema di connessioni che fa pensare all’esistere insieme, qui ed ora, distanti ma connessi, nella “completezza della luce” —per tornare ad Antonia:
[...]
La luna e il sole sono due
amanti rapidi e fugaci
e non siamo più io e te
siamo noi fusi insieme
nella completezza della luce
fioca
ondeggiante come la marea
in eterna corsa…
So cosa significa amore
quando il giorno muore.
Antonia Pozzi,
Tu la notte io il giorno
note
1- Antonia Pozzi, Lampi (23 giugno 1929)
2- Antonia Pozzi, Notte (giugno 1937)
3- Antonia Pozzi, Sera d’aprile (1 Aprile 1931)
4- Italo Calvino, “Le idee contemporanee”, L’approdo letterario (n. 1, 1968), pp. 106-107
Tina Salvadori Paz, Radical Experiments in Correlation (2023), installazione multimediale, Villa Galileo (dettaglio) – ph. Andrea Abati