La Biennale di Venezia
55. Esposizione Internazionale d’Arte
1 giugno – 24 novembre 2013
Venezia
Giardini - Arsenale
Il Palazzo Enciclopedico
Massimiliano Gioni
Il 16 novembre 1955 l’artista auto-didatta italo-americano Marino Auriti depositava presso l’ufficio
brevetti statunitense i progetti per il suo Palazzo Enciclopedico, un museo immaginario che
avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità, collezionando le più grandi scoperte del
genere umano, dalla ruota al satellite.
Rinchiuso in un garage perso nella campagna dello stato della Pennsylvania, Auriti lavorò per
anni alla sua creazione, costruendo il modello di un edificio di cento trentasei piani, che avrebbe
dovuto raggiungere i settecento metri di altezza e occupare più di sedici isolati della città di
Washington.
L’impresa di Auriti rimase naturalmente incompiuta, ma il sogno di una conoscenza universale e
totalizzante attraversa la storia dell’arte e dell’umanità e accumuna personaggi eccentrici come
Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti che hanno cercato – spesso in vano – di costruire
un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza.
Queste cosmologie personali, questi deliri di conoscenza mettono in scena la sfida costante di
conciliare il sé con l’universo, il soggettivo con il collettivo, il particolare con il generale,
l’individuo con la cultura del suo tempo. Oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi
tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi omnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari
e ancor più disperati. La 55. Esposizione Internazionale d’Arte indaga queste fughe
dell’immaginazione in una mostra che – come il Palazzo Enciclopedico di Auriti – combina opere
d’arte contemporanea, reperti storici, oggetti trovati e artefatti.
Con opere che spaziano dall’inizio del secolo scorso a oggi, e con molte nuove produzioni, la
mostra include più di centocinquanta artisti provenienti da trentotto nazioni. Concepita come un
museo temporaneo, l’esposizione sviluppa un’indagine sui modi in cui le immagini sono utilizzate
per organizzare la conoscenza e per dare forma alla nostra esperienza del mondo.
Sfumando le distinzioni tra artisti professionisti e dilettanti, tra outsider e insider, l’esposizione
adotta un approccio antropologico allo studio delle immagini, concentrandosi in particolare sulle
funzioni dell’immaginazione e sul dominio dell’immaginario. Quale spazio è concesso
all’immaginazione, al sogno, alle visioni e alle immagini interiori in un’epoca assediata dalle
immagini esteriori? E che senso ha cercare di costruire un’immagine del mondo quando il mondo
stesso si è fatto immagine?
La mostra si apre al Padiglione Centrale ai Giardini con una presentazione del Libro Rosso di Carl
Gustav Jung, un manoscritto illustrato al quale il celebre psicologo lavorò per più di sedici anni.
Raccolta di visioni auto-indotte, il Libro Rosso di Jung – presentato per la prima volta in Italia e mai
prima d’ora esposto accanto ad altre opere d’arte contemporanea - introduce una riflessione sulle
immagini interiori e sui sogni che attraversa l’intera mostra.
L’esposizione raccoglie numerosi esempi di opere ed espressioni figurative che illustrano diverse
modalità di visualizzare la conoscenza attraverso rappresentazioni di concetti astratti e
manifestazioni di fenomeni sopranaturali. Nelle sale del Padiglione Centrale i quadri astratti di
Hilma af Klint, le interpretazioni simboliche dell’universo di Augustin Lesage, le divinazioni di
Aleister Crowley si intrecciano alle opere di artisti contemporanei. Ma Il Palazzo Enciclopedico non è
una mostra sull’occultismo o sull’artista come medium: è una mostra in cui attraverso questi
esempi si rende manifesta una condizione che condividiamo tutti, e cioè quella di essere noi stessi
media, di essere conduttori di immagini, di essere persino posseduti dalle immagini.
I disegni estatici delle comunità Shaker trascrivono messaggi divini, mentre quelli degli sciamani
delle Isole Salomone sono popolati da demoni e divinità in lotta con pescecani e creature marine.
La rappresentazione dell’invisibile è uno dei temi centrali della mostra e ritorna nelle cosmografie
di Guo Fengyi e in quelle di Emma Kunz, nelle icone religiose e nelle danze macabre di Jean-
Frédéric Schnyder e nel video di Artur Zmijewski che filma un gruppo di non vedenti che
dipingono il mondo a occhi chiusi. L’idea che l’immagine sia un’entità viva, pulsante, dotata di
poteri magici e capace di influenzare, trasformare, persino guarire l’individuo e l’intero universo
oggi ci appare come una concezione datata, offuscata da superstizioni arcaiche. Eppure come
negare il potere talismanico dell’immagine quando ancora portiamo nei nostri cellulari le
immagini dei nostri cari?
Un simile senso di stupore cosmico pervade molte altre opere in mostra, dai film di Melvin Moti
alle riflessioni sulla natura di Laurent Montaron, fino alle sublimi vedute di Thierry De Cordier. Le
piccole ceramiche di Ron Nagle, le intricate geometrie floreali di Anna Zemánková, le mappe
immaginarie di Geta Bratescu e i palinsesti dipinti di Varda Caivano descrivono un mondo
interiore dove forme naturali e presenze immaginarie si sovrappongono. Queste corrispondenze
segrete tra micro e macrocosmo ritornano nelle figure ieratiche di Marisa Merz e in quelle assai più
carnali di Maria Lassnig: entrambe trasformano autoritratti e corpi in cifre dell’universo.
L’esercizio dell’immaginazione attraverso la scrittura e il disegno è uno dei temi ricorrenti
nell’esposizione che, accanto alle opere di artisti contemporanei, raccoglie le sperimentazioni
visive di alcuni celebri autori del Novecento, dagli esseri inventati da Jorge Luis Borges e illustrati
dall’artista Christiana Soulou, passando per i diari di Franz Kafka tradotti in immagini da José
Antonio Suárez Londoño. La collezione di pietre dello scrittore francese Roger Caillois combina
geologia e misticismo, mentre le lavagne disegnate dal pedagogo Rudolf Steiner tracciano
diagrammi impazziti che inseguono il desiderio impossibile di descrivere e comprendere l’intero
universo.
Il Palazzo Enciclopedico è una mostra sulle ossessioni e sul potere trasformativo dell’immaginazione.
Artisti assai diversi quali Morton Bartlett, James Castle, Peter Fritz e Achilles Rizzoli hanno
passato la vita a progettare mondi alternativi. La tensione tra interno ed esterno, tra inclusione ed
esclusione è il soggetto di una serie di opere che indagano il ruolo dell’immaginazione nelle carceri
(Rossella Biscotti) e negli ospedali psichiatrici (Eva Kotátková). Altri spazi di reclusione – più o
meno fantastici – sono quelli disegnati da Walter Pichler che per tutta la vita ha progettato
abitazioni e case per le sue sculture, quasi fossero creature viventi provenienti da un altro pianeta.
Nei vasti spazi dell’Arsenale – ridisegnati per l’occasione - l’esposizione è organizzata secondo
una progressione dalle forme naturali a quelle artificiali, seguendo lo schema tipico delle
wunderkammer cinquecentesche e seicentesche. In questi musei delle origini – non dissimili dal
Palazzo sognato da Auriti – curiosità e meraviglia si mescolavano per comporre nuove immagini
del mondo fondate su affinità elettive e simpatie magiche. Questa scienza combinatoria – basata
sull’organizzazione di oggetti e immagini eterogenee – non è poi dissimile dalla cultura dell’iperconnettività
contemporanea.
Cataloghi, collezioni e tassonomie più o meno impazzite sono alla base di molte opere in mostra
tra cui le fotografie di J.D. ‘Okhai Ojeikere, le installazioni di Uri Aran, i video di Kan Xuan, i
bestiari di Shinichi Sawada e i labirinti di Matt Mullican. Paweł Althamer compone un ritratto
corale con una serie di novanta sculture.
Dal Liber Novus di Jung, passando per gli assemblage di Shinro Ohtake fino ai volumi di Xul Solar,
la mostra celebra il libro – questo oggetto ormai a rischio di estinzione – come spazio-rifugio, luogo
della conoscenza, strumento di auto-esplorazione e via di fuga nel dominio del fantastico. Yüksel
Arslan disegna le tavole enciclopediche di una civiltà immaginaria che assomiglia a una versione
non troppo distorta dell’umanità. L’ambizione di creare un opus magnum – un’opera che, come il
Palazzo di Auriti, contenga e racconti tutto – attraversa i disegni di Arslan e le illustrazioni della
Genesi di R. Crumb, le cosmogonie di Frédéric Bruly Bouabrée e le leggende descritte da Papa Ibra
Tall. Nel suo nuovo video Camille Henrot studia i miti di creazione di diverse società, mentre le
centinaia di sculture di creta di Fischli e Weiss forniscono un antidoto ironico agli eccessi romantici
delle visioni più totalizzanti.
Nei disegni di Stefan Bertalan, Lin Xue e Patrick Van Caeckenbergh, assistiamo a tentativi ostinati
di decrittare il codice della natura, mentre i film di Gusmão e Paiva, le fotografie di Christopher
Williams e dei pionieri Eliot Porter e Eduard Spelterini scrutano ecosistemi e paesaggi con lo
sguardo meravigliato di chi vuole catturare lo spettacolo del mondo.
I video di Neïl Beloufa e Steve McQueen e i quadri di Eugene Von Breunchenhein immaginano
diversi modi di visualizzare il futuro mentre il ricordo del passato e la memoria sono il punto di
partenza per le opere di Aurélien Froment, Andra Ursuta e altri artisti in mostra.
Al centro dell’Arsenale l’artista Cindy Sherman presenta un progetto curatoriale – una mostra
nella mostra, composta da più di duecento opere di oltre trenta artisti – in cui è messo in scena un
suo personale museo immaginario. Bambole, pupazzi, manichini e idoli si mescolano a collezioni
di fotografie, dipinti, sculture, decorazioni religiose e tele disegnate da carcerati che insieme
compongono un teatro anatomico nel quale sperimentare e riflettere sul ruolo che le immagini
hanno nella rappresentazione e percezione del sé. La parola “immagine” contiene nella sua
etimologia una prossimità profonda con il corpo e con la morte: in latino l’imago era la maschera di
cera che i romani creavano come calco per preservare il volto dei defunt
Di corpi e desideri ci parlano anche il nuovo video di Hito Steyerl sulla cultura dell’iper-visibilità e
il nuovo reportage di Sharon Hayes che presenta un remake girato in America di Comizi D’Amore,
il film inchiesta sulla sessualità di Pier Paolo Pasolini. Il desiderio di verità inseguito da Pasolini
stesso in tutta la sua carriera è ricordato nel monumento dedicatogli da Richard Serra.
Quelli sognati da Evgenij Kozlov sono corpi agitati da fantasie di un adolescente inquieto, che non
stonano accanto alle matrone procaci di Friedrich Schröder-Sonnenstern o vicino ai guardoni di
Kohei Yoshiyuki. Questa tensione scopofiliaca contraddistingue anche i quadri di Ellen Altfest che
scruta i corpi dei suoi soggetti con uno sguardo lenticolare, come se volesse catturare e conoscere il
mondo poco a poco, centimetro di epidermide dopo centimetro di epidermide.
I corpi post-umani e smaterializzati di Ryan Trecartin introducono alla sezione finale dell’Arsenale
in cui opere di Yuri Ancarani, Alice Channer, Simon Denny, Wade Guyton, Channa Horwitz,
Mark Leckey, Helen Marten, Albert Oehlen, Otto Piene, James Richards, Pamela Rosenkranz, Stan
VanDerBeek e altri esaminano la combinazione di informazione, spettacolo e sapere tipica dell’era
digitale.
A fare da contrasto al rumore bianco dell’informazione, un’installazione di Walter De Maria esalta
la purezza silenziosa e algida della geometria. Come tutte le opere di questo artista leggendario –
figura fondamentale dell’arte concettuale, minimalista e della land art – questa scultura astratta è il
risultato di complessi calcoli numerologici, sintesi estrema delle infinite possibilità
dell’immaginazione.
Una serie di progetti in esterni di John Bock, Ragnar Kjartansson, Marco Paolini, Erik van Lieshout
e altri completa il percorso della mostra che si snoda fino alla fine dell’Arsenale, nel cosiddetto
Giardino delle Vergini. Alcune di queste performance e installazioni si ispirano alla tradizione
cinquecentesca dei “teatri del mondo”, rappresentazioni allegoriche del cosmo in cui attori e
architetture effimere erano usate per costruire immagini simboliche dell’universo.
Da queste e molte altre opere in mostra, Il Palazzo Enciclopedico emerge come una costruzione
complessa ma fragile, un’architettura del pensiero tanto fantastica quanto delirante. Dopo tutto, il
modello stesso delle esposizioni biennali nasce dal desiderio impossibile di concentrare in un
unico luogo gli infiniti mondi dell’arte contemporanea: un compito che oggi appare assurdo e
inebriante quanto il sogno di Auriti.
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