59. Esposizione Arte di Venezia
ALLORO
Padiglione Venezia
a cura di Giovanna Zabotti
Tutto muta, nulla muore, tutto
scorre e ogni immagine si forma
nel movimento
“Ogni immagine si forma nel movimento”. Questo può essere considerato il mantra dell’edizione 2022 del Padiglione Venezia, intitolato Alloro, alla 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia.
Alloro è un viaggio che affronta il cambiamento, la metamorfosi, attraverso la natura e l’arte, che ha inizio nella psiche, in un luogo pulito, quasi asettico, perfetto e si conclude nella Terra, un percorso che si compie nel movimento. Un movimento in cui ogni singolo passaggio è scandito dal ritmo di una musica, suoni che non sono un sottofondo, ma che nascono essi stessi come un’opera.
«Il progetto espositivo del Padiglione Venezia, quest’anno intitolato Alloro, ha fondamentalmente tre temi di fondo: l’avvicinamento dell’uomo alla natura, la forza della donna e la metamorfosi spiegata dall’arte. L’alloro è, infatti, il simbolo per eccellenza della metamorfosi. – racconta il curatore Giovanna Zabotti - Metamorfosi in tutte le accezioni del suo significato: nel suo senso di trasformazione di un essere in un altro di natura diversa e come elemento tipico di racconti mitologici, religiosi, magici. La novità di questo Padiglione sta nel fatto che il visitatore non vedrà le opere d’arte ma le vivrà: si muoverà al suo interno ad un ritmo preciso scandito da una musica, che lo porterà inizialmente ad indagare il proprio io, per poi vivere una sorta di percorso emozionale in tre dimensioni, fino ad assaporare lo sguardo dei giovani artisti verso il futuro».
Questa “esposizione in movimento” si apre con il duo di artiste Goldschmied & Chiari, che ha creato una sorta di tempio celebrativo della femminilità. Le due sale sono costruite come un gioco di luci e ombre e rappresentano la soglia di mondi enigmatici tra l’alchimia e la magia, denominati Portali. Il centro del percorso, introdotto da una introduzione al tema intitolata Best Wishes di Ottorino De Lucchi, è l’istallazione Lympha, il mito di Dafne e Apollo reso in chiave moderna dall’artista Paolo Fantin con il gruppo Ophicina e accompagnato dalla musica, intitolata Gocce di Alloro, del maestro Pino Donaggio. La mostra si conclude in un piccolo “bosco” di alloro, esterno alla struttura.
La terza e ultima sala è occupata dalle opere vincitrici del concorso Artefici del Nostro Tempo.
A cura di Giovanna Zabotti, Venetika, l'opera di Ferzan Ozpetek al MAXXI Museo Nazionale dell’Arte del XXI secolo, un progetto nato per la 58ma Biennale d’Arte di Venezia.
Alloro, Padiglione Venezia. 59. Esposizione Internazionale d’Arte. Photo by: Marco Cappelletti
Alloro
Padiglione Venezia
59esima edizione della Mostra internazionale d’arte di Venezia
testo di Valentina Galeotti
La mostra all’interno del padiglione Venezia della 59 esima edizione della Biennale d’arte si
chiama Alloro ed è esplicitamente dedicata al mito di Apollo e Dafne.
In
ouverture, insieme alle superfici specchianti delle artiste Goldschmied & Chiari, un serie di
splendidi vasi di Murano accoglie il visitatore.
Il vaso, forse il più primordiale tra gli utensili foggiati dall’uomo, il più antico, orientato “verso
l’alto per ricevere e in rapporto con la terra da cui eleva qualcosa” 1, il cui vuoto all’interno è
contenuto da un bordo.
Un oggetto, il vaso, che presenta, agli occhi dell’osservatore, le prime tracce dell’inedito che borda
la matrice arcaica, in una trasparenza ineffabile, dal blu al verde smeraldo. Perché questo oggetto?
Si procede. Nella seconda stanza, la prima delle tre centrali, qualcuno si
presentifica. Si
presentifica una figura avvolta da un lenzuolo, capelli sciolti color rame, protesa in avanti. È Dafne, ad occhi
chiusi. Nulla nell’ordine del pittorico ma un corpo iperealista realizzato ad hoc per l’installazione.
Percorriamo le tra sequenze. La prima: la ninfa irrequieta, inquieta, combattuta, divisa. Questo moto
interno che la anima altro non è che il desiderio che pulsa, che batte, che disturba. Cosa fare?
Rimanere, restare, accondiscendere al potere idiotamente fallico incarnato da Apollo ma rimanere
viva al contrario scappare, muoversi, libera ma rinunciare alla condizione da ninfa per divenire
Altra Cosa?
Dafne è già al di là del
Principio del piacere. L’
oltrepassamento, presentato dalla postura, è già lì.
Cosa significa? Sartre scrive “ciò che è assume dunque il suo significato solo quando è superato
verso l’avvenire. Ciò che è, è dunque il passato”2. In altre parole Dafne è qui ma allo stesso tempo
non è qui, il suo porsi in avanti è già il precipitato di un desiderio inconscio ancora non avvenuto.
Questa stanza si chiama “la scelta”.
Alloro, Padiglione Venezia. 59. Esposizione Internazionale d’Arte. Photo by: Marco Cappelletti
Tra le interpretazioni di questo mito di Ovidio vi è quella che afferma che l’elemento a cui Dafne
non volesse rinunciare fosse il suo stato di verginità.
Si preferisce individuare nella lettura di questa riluttanza la ferma posizione rispetto non tanto alla
verginità come condizione legata all’irreversibilità o meno biologica del sessuale, concetto
universale caro alla cultura latino romana ma alla libertà come presa di posizione soggettiva,
propria sia dell’uomo che della donna, facoltà del soggetto in condizione di scegliere.
Dafne per suo statuto è una creatura liminale, lei è tra, tra le-due-morti, come chioserebbe Lacan3.
Procediamo nel dramma. Nell’atto della scelta Dafne è sola. Si è sempre soli rispetto al proprio atto di scelta.
Come ricorda di nuovo Sartre: “L’uomo non è nient’altro che quello che progetta di essere, egli non
esiste che nella misura in cui si realizza; non è nient’altro che l’insieme dei suoi atti, nient’altro che
la sua vita [...] È condannato a essere libero”.
Cosa significa? Significa che noi, qui l’apporto lacaniano, nasciamo dall’Altro, nascere, diremmo
sartrianamente, è “ricevere il proprio posto”4, nasciamo in un bagno di significanti che come una
pioggia universale hanno marchiato, segnato, inciso il nostro corpo di soggetto dalla nascita.
Prevale dunque una parte destinale.
La partita si giocherà sulla scelta che ciascun soggetto vuole fare di queste tracce a cui è destinato,
qui il filo che lega potentemente Sartre e Lacan.
Cosa fare? Accondiscendere al significante/cattura di Apollo o prendere posizione in modo
sovversivo e “muoversi da”?
Ogni prendere posizione comporta un esilio5. Dafne è una figura dell’esilio, libera, eccedente, non
tutta, la libertà di cui si parla è la “liberta-alla morte appassionata, sciolta dalle illusioni del sì,
fattizia, certa di se stessa e angosciata”6 per dirla con Heidegger.
Non a caso la seconda stanza, e qui veniamo alla seconda fase dell’installazione, mette in scena un
letto vuoto, un lenzuolo e le tracce di terra che Dafne ha lasciato. I resti di Dafne.
Alloro, Padiglione Venezia. 59. Esposizione Internazionale d’Arte. Photo by: Marco Cappelletti
Il resto entra in campo. Qui, si può affermare, si è nella pura drammaturgia. Non stupisce che ad
ideare e realizzare l’installazione sia lo scenografo Fantin, abilissimo nella celebrazione
dell’oggetto, nella sacralizzazione della scena, ridotta ai minimi termini di un letto vuoto,
un’assenza che si fa assordante, un’assenza in cui il reale della Cosa si presentifica. Siamo nella
poetica del vuoto, in continuum con il vaso.
Immediato il richiamo a Kounellis. Il materiale povero della terra, il colore marrone scuro in
contrasto al bianco latte, la terra spostata. Come con gli oggetti di Kounellis il
frammento7 terra, il
frammento lenzuolo non sono specchio di un ideale narcisistico, oggetti preziosi, ma al contrario
sono oggetti sacralizzati nella loro povertà, nella loro essenza. Un resto inquieto, “oggetto a”
causato dal desiderio, prodotto dall’inquietudine della sua stessa artefice. Dafne non c’è più.
Andiamo alla terza scena: su un letto traboccante di latte sorge sospeso un ramo di alloro, è Dafne
che ha cambiato sembiante. Qui la questione si pone come molto articolata, si tenterà tuttavia di
analizzarla con l’intento di rimanere sulla presentazione più che sulla rappresentazione, sulla scena
più che sul simbolo, sull’oggetto più che sulla narrazione.
Nel mito si narra che Dafne nella fuga chiede alla madre Gea, in altra versione la domanda è rivolta
al padre, (opzione molto interessante), di trasformarla e Gea la trasforma in ramo di alloro. La ninfa
chiede alla madre qualcosa, dunque. La madre è la madre terra, territorio generativo, che dona vita,
che dona possibilità. Questo elemento non si vede, ciò che si vede, e qui si accede alla terza delle tre
sequenze centrali, decisive dell’istallazione, è un ramo di alloro.
Esso è sopra elevato, innalzato, innalzato alla dignità della Cosa potremmo dire. Dafne si è fatta
oggetto scarto, elevato alla dignità della Cosa. Dafne ha fatto del suo atto metamorfico un’opera
d’arte. L’artista sceglie di dedicare la stanza a questo oggetto, reso sacro, reso pura presenza,
irriducibile. La tragedia si è consumata.
Al di là delle tante interpretazioni intorno al mito di Ovidio, di interesse marginale in questa sede,
si nota qui la presentazione più che la rappresentazione. La potenza di questa opera risiede nella
sequenza scenica, nell’operazione di estrema riduzione dei contenuti a favore di una forma
essenziale, sublimata appunto.
Alloro, Padiglione Venezia. 59. Esposizione Internazionale d’Arte. Photo by: Marco Cappelletti
Cosa resta di questo? La metamorfosi ha prodotto Dafne/alloro, l’oggetto causa del desiderio,
l’oggetto scarto che sarebbe bello pensare oltre il mito, oltre il linguaggio, oltre la storia, dentro la
drammaturgia, come processo di progressiva riduzione in nome di un desiderio puro, di libertà.
Ancora una volta l’arte, in quanto pratica simbolica, permette di accedere al reale del soggetto
presentando un dramma che nel farsi narrazione si consuma, muta, si riduce, sgombro di significati
relati ad esso, sino a divenire puro segno, particolare e unico.
Nella penultima ed ultima stanza il pavimento calpestabile si trasforma in terra del bosco, scura e
morbida, elemento discontinuo, interessante proprio alla luce delle sequenze dell’istallazione,
collegate, ma assolute allo stesso tempo.
Presenti un mirabile dipinto a olio dell’artista Ottorino De Lucchi raffigurante l’alloro, seguita da
altre opere dei nove artisti vincitori del concorso “Artefici del nostro tempo”, un concorso dedicato
a giovani esordienti sulle discipline del Design del vetro, Opere in vetro, Fotografia, Fumetto e
illustrazione, Pittura, Poesia visiva, Video Arte, Street Art.
Un grande lavoro a conferma dell’attenzione particolare di questo Padiglione e della curatrice
Zabotti all’opera che nasce, all’inedito, alla sperimentazione in contrapposizione al collaudato e al
conosciuto, a favore, e qui l’elemento che solca questo Padiglione di un valore aggiunto, di un
aperto che da voce a chi, per una logica del Grande pubblico, non sarebbe altrimenti ascoltato.
Alloro, Padiglione Venezia. 59. Esposizione Internazionale d’Arte. Photo by: Marco Cappelletti
Note
1. Lacan J. Il Seminario, Libri VII. L’etica della psicoanalisi, Ed. ita. Einaudi, 2008, p. 143
2. Sartre J.P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 2014, p. 569.
3. Chi scrive sceglie di non trattare il testo originale del mito, a favore dell’opera presente in Padiglione.
4. Ibid. pag. 562.
5. La parola esilio è qui ben appropriata per intendere la posizione del soggetto Dafne. Leggiamo Lacan: “Esilio, non
potrebbe esserci miglior termine per esprimere il non-rapporto, ed è proprio intorno a questo non rapporto che ruota
tutto quello che c’è in exiles”. Lacan J., Il seminario. Libro XXIII, Il synthomo, Astrolabio, 2006, p.67.
6. Heidegger M., Essere e tempo, Mondadori, Milano, 2020, p. 267.
7. Si rimanda al prezioso testo intitolato Jannis Kounellis. La potenza del frammento, di Massimo Recalcati, in Doppiozero, 2018
Artisti: Goldschmied & Chiari, Ottorino Lucchi, artisti esordienti vincitori del concorso Artefici del nostro tempo.
Artisti Istallazione Lympha: Paolo Fantin con il gruppo Ophicina. Musica del maestro Pino Donaggio.