Mind the Gap
In un saggio del 1955 e pubblicato in Italia nel 1960, l'antropologo francese Claude Lévi-Strauss afferma che “Un viaggio si inserisce simultaneamente nello spazio, nel tempo e nella gerarchia sociale”.1
Tale affermazione presente nella sua opera Tristi tropici, redatta in forma di diario di viaggio, analizza, documenta e approfondisce le esperienze etnografiche da lui vissute durante la
permanenza in America del Sud.
Devo ammettere che nei miei viaggi – seppur dal carattere e dagli intenti – molto diversi da quelli
affrontati da Lévi-Strauss, in un certo qual modo l'idea parzialmente latente del suo testo mi ha
accompagnato e continua a farlo a sprazzi ma con costanza.
Da questa suggestione di viaggio legata allo spostamento sia fisico che mentale ma anche etico e
morale ne è scaturita una prima riflessione che ha focalizzato il mio interesse sui sistemi di
comunicazione pubblica.
In particolar modo il mio sguardo si è concentrato su quei sistemi informativi, presenti all'interno
dei luoghi pubblici preposti al trasporto dei viaggiatori come le stazioni metropolitane.
Segnaletica orizzontale o verticale, pannelli interattivi, dispositivi ottici e acustici hanno assunto la
funzione di codice, simbolo, logo, entrando a far parte del nostro bagaglio esperienziale
quotidiano.
Ho sempre subito il fascino di questa tipologia di comunicazione, diretta, rapida, semplice e
univoca, in particolar modo ha esercitato una notevole influenza sui miei ricordi – legati al viaggio –
il messaggio registrato “Mind the gap”2 e diffuso all'interno delle stazioni metropolitane.
Ho provato a riflettere sul senso di questo messaggio cercando di andare oltre l'aspetto semanticolessicale,
ne è nata una mostra intitolata appunto Mind the Gap.3
Introdotto per la prima volta nel 1969 nella Metropolitana di Londra – il messaggio registrato dalla
voce dell'attore inglese Oswald Laurence – si è diffuso su scala internazionale entrando a far parte
della colonna sonora “obbligata”, che seppur con minime varianti è stata adottata in un buon
numero di stazioni, accompagnando il transito quotidiano di milioni di utenti nel mondo.
“Mind the gap”, tecnicamente tradotta in “Attenzione al vuoto”, intende allertare i viaggiatori spesso
distratti rispetto al pericolo costituito dallo spazio che intercorre tra la banchina ferroviaria e il
pianale del treno.
L’idea progettuale nasce dunque dall’esigenza di concentrarsi su quel vuoto fisico evidenziato da
“Mind the gap” e attraverso la metafora accendere i riflettori della conoscenza acquisita e
acquisibile mediante l’esperienza.
L'esperienza è un risultato volontario e involontario – diretto e indiretto, attivo e passivo, frutto di
pratiche specifiche – che consente di provare a interpretare e comprendere attraverso la forma, le
numerose modalità che il vuoto ha di manifestarsi o semplicemente di agire, accogliendo i
fenomeni che in esso si generano dando vita a costruzioni percepibili non solo alla vista ma anche
all’udito e all’olfatto.
Possiamo perciò affermare che alla base delle attività che accompagnano i processi formativi delle
opere e che interessano la fruizione estetica delle forme da esse prodotte, non sta una teoria del
vuoto – ma un’esperienza del vuoto – che è ottenibile solo mediante la pratica.
Gli artisti coinvolti nel progetto portano al cuore delle loro poetiche un’indagine complessa che
declina concetti e forme seguendo una pluralità metodologica capace di far collimare il detto con il
non detto, il vuoto con il pieno, le pause e i silenzi in una funzione reversibile e continua.
Qui l’indagine sul racconto artistico contemporaneo si carica di una corposa mole di riferimenti,
suggestioni e ispirazioni, arricchendosi al contempo della storia e dei suoi “prodotti”, delle scoperte
e delle regole che il progresso costantemente ci consegna.
Il tema del vuoto o meglio la materia del vuoto, è una questione che percorre l'intera storia del
pensiero filosofico e scientifico in un dibattito ancora vivo, che s'intreccia a concetti simbolici,
mistici, psicologici ed estetici.
[…]
Mind the Gap invece prova a mettere insieme una serie di opere molto diverse tra loro che,
direi non considerano il vuoto secondo una lettura aristotelica bensì lacaniana.
Se per Aristotele il vuoto è frutto della sottrazione, per Lacan è parte integrante delle cose e nasce
contestualmente alle forme create che accolgono e sono accolte dal vuoto stesso.
La vacuità, in fondo, sta alla forma come il significante sta al significato.
Per meglio argomentare il senso del vuoto Lacan fa riferimento alla Cosa e richiama nella sua
analisi la conferenza intitolata Das Ding (La Cosa), tenuta da Martin Heidegger nel 1950.4
Riprende perciò l'esempio della brocca come contenitore, sostenendo che quando il vasaio
realizza l'oggetto lo plasma intorno al vuoto.
Tale creazione produce in un solo atto un duplice risultato, il vaso e il vuoto; è dunque che in un
accadimento unico l'uno si modella sull'altro dal nulla, introducendo il senso di creazione ex nihilo
perciò si crea il vaso a partire da e attorno ad un vuoto che tendenzialmente è privo di forma.
Avallando questa analisi, le opere presenti nella mostra Mind the Gap strutturano la propria forma
ex nihilo, cioè dal nulla, attorno ad un'idea di vuoto che è lo stesso vuoto che si offre come
contenitore della forma prodotta esponendola.
La scrittura espositiva cadenzata da pause spaziali e silenzi temporali, è pensata per far collidere
posizioni e tecniche disparate immettendovi una tensione che funge da fil rouge, snodandosi
attraverso i candidi spazi della galleria e lasciando emergere un'atmosfera intima e riflessiva.
La prima sala che accoglie lo spettatore, ospita quattro opere in dialogo.
Davide Allieri presenta Senza Titolo, 2013, una specie di teca aperta, senza vetri e molto curata
nei dettagli, una vera e propria architettura – un contenitore vuoto – che espone se stesso e non il
suo contenuto.
Posizionata davanti alla “vetrina” della galleria la teca, solitamente legata alla funzione ostensiva e
conservatrice, viene defunzionalizzata dall'artista che ne conserva solamente la struttura in legno
nero dipinto e i 2 ripiani in vetro, eliminando definitivamente i vetri laterali e quello superiore che
andrebbero a definirne la volumetria, sfondando in senso reale e figurato le potenziali separazioni
tra interno ed esterno.
Il vuoto in questo caso riempie la teca della sua immateriale presenza attraversandola e al
contempo si offre ad una lettura quasi alchemica dove le forme piramidali capovolte che ne
costituiscono le gambe vanno a contrastare i riflessi dorati generati dall'interazione della luce sulla
lamina di ottone posizionata sul fondo della struttura.
A questa suggestione alchemica misticheggiante fa da contraltare il lavoro fotografico
Supersymmetric Partner / Convito in casa Levi Haeredes Pauli, 2014, di Luca Pozzi.
Lo scatto è l'ultimo di nove che compongono il macro progetto che testimonia in un certo qual
modo il pellegrinaggio laicamente devozionale che l'artista ha intrapreso per “incontrare” le cene e
i banchetti rinascimentali dipinti da Paolo Caliari, detto il Veronese.
In realtà il dipinto in questione è l'unico, considerato da Pozzi, a non esser autografo del Veronese
bensì è opera dei cosiddetti “Haeredes Pauli Veronensis” ossia della bottega dell'artista formata
dai figli e dal fratello che proseguirono l'attività dopo la morte del pittore.
Una volta entrato nei musei che espongono tali opere, Pozzi si lascia ritrarre davanti ai “teleri”
mentre compie un gesto atletico, spiccando un salto fino a collocarsi idealmente nel vuoto creato
tra i personaggi dipinti, con l’intento di unificare lo spazio e il tempo, la storia passata e quella
futura attraverso la gravità che colma il vuoto nel presente mediante la sua stessa massa
corporea.
Al primo impatto ne deriva una visione straniante, una fiction, che presenta l'immagine
bidimensionale del quadro cinquecentesco dove lo spazio è magistralmente gestito dall'illusione
prospettica, solo in un secondo momento si svela il mimetismo attuato dall'artista che va ad
occupare in carne ed ossa il finto vuoto dipinto.
Un atteggiamento differente è invece assunto da Alexandros Papathanasiou che nella medesima
sala propone due feltri tratti dalla stessa serie, rispettivamente Still Waiting for a Spatial Concept II,
2015 affrontato da Still Waiting for a Spatial Concept IV, 2015.
Entrambi ispirati all'opera di Lucio Fontana, il primo si riferisce direttamente al Concetto Spaziale,
Attese del 1965, di colore bianco a 12 tagli di grande formato, l'altro invece è una derivazione del
Concetto Spaziale, Attese del 1960, di colore rosso a tre tagli e dalle piccole dimensioni.
Papathanasiou in maniera consapevolmente lucida e ironica ricuce i tagli, li sutura con ago e filo,
in un certo senso un sarto che ricuce la storia chiudendo quello spazio vuoto reale aperto 50 anni
prima dalla geniale intuizione di Fontana.
Assistiamo pertanto ad una lettura multipla e condivisa che se da un lato propone una citazione
oggettiva dell'opera di Fontana mediante l'azione fisica diretta, che si concretizza in strappi e
lacerazioni della tela come segno di un gesto generante un campo di forze legato alla forma –
distruggendo e trascendendo i limiti spaziali della rappresentazione stessa della pittura – dall'altra
parte si oppone una gestualità, impetuosa prima e pacata poi, attraverso la quale Papathanasiou
cerca di recuperare la contiguità della superficie occludendo definitivamente il vuoto misurabile
dell'opera.
Proseguendo il percorso espositivo la relazione tra i lavori si fa serrata e si presenta nella seconda
sala come un dialogo diretto tra l'opera di Davide Allieri, 0.488 cubic meters (K), 2015 e lo scatto
fotografico di Luca Pozzi, Supersymmetric Partner / Nozze di Cana, 2010 sempre ispirato al
Veronese.
Il lavoro scultoreo di Allieri mostra una struttura costituita da una base a quattro gambe in legno
nero dipinto sulla quale vanno a sovrapporsi tre teche in vetro temperato di forma parallelepipedica
ognuna delle quali è totalmente autonoma e non condivide con gli altri elementi lo spazio vuoto
che conserva al suo interno.
In merito alla teca non posso non pensare al saggio di Didi-Huberman, nel raccontare la sua
meraviglia al cospetto del mimetismo dei fasmidi nelle teche osservate al Jardin des Plantes di
Parigi attraverso il quale ci invita a riflettere sul rapporto complesso e irrisolto tra particolare e
generale, immagine e conoscenza.5
La teca di Allieri, assimilabile alle forme care alle esperienze minimaliste degli anni '60 e
concettuali degli anni '70, palesa nel titolo il risultato del calcolo della somma dei volumi interni
fornendo allo spettatore un indizio utile a stabilire l'ipotetico vuoto accolto dagli elementi in vetro.
Questa sorta di volumetria tripartita completamente vuota, propone in sintesi la suddivisione dei tre
registri orizzontali saturi di personaggi, presenti nel dipinto del Veronese e congelati nel grande
scatto fotografico di Pozzi in un tempo sospeso tra passato e presente.
Anche in questo caso la metodologia non cambia, l'artista si lascia immortalare nell'atto del salto e
va ad occupare uno degli spazi vuoti presenti nel dipinto.
Proprio come avviene nel famoso triangolo impossibile del matematico, fisico e cosmologo
Penrose, può esistere come rappresentazione bidimensionale ma non nella realtà e qualora
esistesse avrebbe un solo ed unico punto di vista.
Pozzi non è uno scienziato ma sicuramente la sua poetica risulta affine a tutti quei campi di
indagine che trovano la loro verifica all'interno di un ampio sistema di relazioni tra l'arte e la
scienza ma anche tra le filosofie orientali e le sperimentazioni fisico-matematiche più attuali.
La mostra si completa al piano inferiore dello spazio espositivo con due interventi che assumono
un valore ben espresso dalla frase di Maurice Merleau Ponty, “de l’espace spatialisé à l’espace
spatialisant”,6 ossia uno spazio formativo come chiasma tra pieno e vuoto, sinergia e reversibilità
tra il visibile e l'invisibile.
Sono le opere Into Dust, 2014 e Oniria, 2014.
La prima è una scultura in progress di Alexandros Papathanasiou, di forma sferica realizzata
completamente di polvere – prelevata dallo studio dell'artista – quella stessa che si muove libera
nel vuoto e impossibile da percepire se non attraverso la sua stratificazione nel tempo.
La polvere non è semplice usura né trasformazione ma frutto dell'indeterminazione, casuale ed
entropica in stretta relazione con lo spazio e con il tempo.
La sua natura incongruente, granulare e corpuscolare viene sottratta dal vuoto e per dirla con il
Buonarroti, “per via di mettere” modellata nella forma che si presenta alla vista come una sorta di
geoide irregolare dal colore grigio e porta con se gli “odori” di un tempo passato ma in divenire.
L'opera è installata in una sorta di nicchia a pianta quadrata su di un candido plinto, sovrastata da
un soffitto specchiante che ne modifica il rapporto con lo spazio offrendo a chi guarda un nuovo
punto di vista.
Un punto di vista che si schiude per abbracciare l'installazione esperienziale di Tamara Repetto
che occupa l'intero white cube dell'ipogeo espositivo.
Oniria, 2014 è una macchina multisensoriale complessa, costituita da quattro elementi circolari
sospesi nel vuoto, due in plexiglas trasparente e due in legno finemente lavorati.
Tali elementi sostengono degli speakers audio inglobati in semi-cilindri che si alternano nei
diametri e nei materiali, una piccola ventola e delle cialde olfattive.
L'opera che considererei un enviroment, rievoca attraverso i suoni in loop e i profumi, l'atmosfera
di una cartiera durante la sua quotidiana attività produttiva.
Il complesso sistema viene attivato dalla presenza dello spettatore che riconosciuto dal sensore di
movimento mette in funzione il congegno elettronico.
Tutto si muove sotto la soglia dell'immaterialità, tra il visibile e l'invisibile, in un tempo ciclico che
diviene il tempo del ricordo e dell'accadimento. Non è questo un caso isolato, anzi, è l'intera opera
di Tamara Repetto a fondarsi su tali suggestioni, frutto di una progettazione finemente calibrata.
Le sue installazioni, le sue composizioni e i suoi disegni sono preceduti da un'intensa ricerca
preliminare, ma in un modo che solo ispirati amanti e amatori sarebbero in grado di porre in atto. I
sistemi che realizza creano coscienza attraverso l'esperienza e le proprietà dei materiali che
modellano finanche il comportamento del pubblico.
Il suo ambito è la sensorialità in forma sia psicologica che estetica, quale epifania che riunisce al
suo interno il suono, il profumo e il movimento in una condizione di immaterialità totale che si
alimenta della natura ibridata con nuove forme tecnologiche senza soluzione di continuità.
In questa prospettiva il vuoto diventa l'anticamera della forma e territorio fertile per la creazione di
una tensione verso qualcos'altro, perciò può essere inteso come uno stato di passaggio,
un’oscillazione in vista di un’alterazione, un'instabilità radicale, per dirla con Wittgenstein “E' uno
stato di cose necessario ma instabile, al contempo è insieme un processo e un'operazione”.
1 Claude Levi-Strauss, Tristi tropici (1955); tr. it. B.Garufi, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 74.
2 La frase “Mind tha gap” virgolettato si riferisce al messaggio registrato e diffuso in metropolitana.
3 La frase Mind the Gap in corsivo si riferisce al titolo della mostra.
4 Martin Heidegger, Das Ding, in Id., Vorträge und Aufsätze, HGA 7, 2000; tr. it. di G. Vattimo, La cosa, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 109-124. Sul rapporto Lacan-Heidegger a proposito di questa tematica cfr. M. Recalcati, La Cosa e la verità.
Attraversare Heidegger.