Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla
più si lasciava imbrigliare in un concetto. Una per una le parole
fluttuavano intorno a me; (...) Feci un tentativo di salvarmi da questa
condizione, col rivolgermi al mondo spirituale degli antichi. (1)
Chi mai scelse il nome d’Elena,
nome nunzio di sciagura -
fu tal, certo, ora visibile
prova n’hai, che, la ventura
preveggendo, il dir fatidico
spinse verso verità -
per la donna che a tante contese
fu segno, cui pronube
fûr l’aste, che, come è palese,
navigli e guerrieri a sterminio
condusse, a sterminio città?
Dai mollissimi velarii,
la guidò gigante Zefiro
sopra i valichi del mar:
su la pesta non visibile
delle navi che approdavano
al Simèta fitto d’alberi,
guerrïeri ad una caccia
sanguinosa si lanciâr. (2)
Tratti dal Terzo Canto intorno all’Ara dell’Agamennone di Eschilo, questi versi mettono in luce quella congruenza tra nome e oggetto, e dunque tra linguaggio ed essere, che nella Grecia antica era intesa come una necessità. Il nome Elena, che etimologicamente rievoca lo scintillio di una luce notturna, una fiaccola o una divinità lunare, diventa oggetto di un gioco di parole da parte del tragediografo greco. Egli lo riconduce, infatti, al verbo elao che in greco significa devastazione o distruzione e dunque a Ele-naus, distruttrice di navi, El-andros, distruttrice di uomini e Ele-ptolis, distruttrice di città, sostenendo pertanto che si tratti di un nome veritiero perché portatore di sciagura, come la persona a cui è stato assegnato. Questa modalità di ricondurre l’oggetto al suo segno significante attraverso il significato, genialmente intuita da Eschilo, si chiarisce solo successivamente con la perspicace distinzione stoica tra significante (il segno o parola), significato (la rappresentazione evocata dal segno, ossia l’immagine mentale che si forma quando pronunciamo una parola) e referente (la cosa significata o oggetto reale). È in questo senso che si può comprendere la teoria della cosiddetta coalescenza arcaica formulata dal filosofo Guido Calogero nella sua Storia della logica antica (1967), testo fondamentale nella definizione del pensiero arcaico che ha portato alla nascita della logica moderna.
Dal latino coalescĕre, “unirsi insieme”, il termine coalescenza viene declinato oggi in varie modalità che afferiscono a campi di studio differenti, dalla fonologia all’astrofisica, passando per l’anatomia e la fisica. Quest’ultimo ambito è però quello che più comunemente riconduce al fenomeno della coalescenza, per il quale le gocce di un liquido disperse in un altro non miscibile si aggregano formando masse più grandi che tendono a isolarsi dal liquido ospitante, come l’olio immerso in acqua. “Unirsi insieme”, dunque, un sintagma che rafforza il senso stesso di una fusione che, per tornare a Calogero, unisce inscindibilmente, spesso addirittura confondendo, la sfera logica, ontologica e linguistica, ossia il pensiero con la realtà e il linguaggio. Sostenendo che la vista per gli antichi Greci fosse il senso primario perché prova dell’esistenza del mondo esterno, Calogero teorizza l’arcaica coalescenza come un modo di vivere e guardare al mondo, quando non c’era distinzione tra visibilità, esistenza e pensiero: solo ciò che si poteva vedere esisteva veramente e dunque poteva essere pensato. Dal pensiero nasceva poi l’esigenza comunicativa, ossia quel bisogno di descrivere il mondo che ci circonda e da cui nasce il linguaggio.
Parmenide (544-450 a.C.) affermava che il dire fosse coessenziale all’essere e al pensare e che dunque tutto ciò che può essere pensato e detto è, considerando di conseguenza il nulla come inesprimibile perché pensare e dire il nulla significa non pensare e non dire affatto. Tuttavia già con Gorgia (483-375 a.C.) e i Sofisti vennero messi in discussione i limiti della logica arcaica sostenendo che la parola è il risultato di un’impressione che riceviamo dalla realtà esterna e non l’oggetto stesso. Non essendo parola, l’essere non lo si può manifestare agli altri, così come non tutte le cose pensate possono esistere perché sarebbero contrarie all’esperienza: se pensiamo a un uomo che vola, non lo vedremo di certo spiccare il volo. Si cominciava dunque a riflettere sulla natura del linguaggio, se esso fosse veramente in grado di esprimere la realtà, se la realtà potesse esprimersi in maniera diretta o se invece necessitasse del segno, e se il segno potesse essere espressione di più cose insieme. È per questo che, da semplice insieme di simboli, suoni e gesti utilizzati per esprimersi, il linguaggio ha acquisito nel tempo una valenza sempre maggiore in quanto contenitore del nostro sapere.
In epoca romantica, questa scissione tra le sfere di definizione della realtà e quindi l’allontanamento da una condizione ideale di unione mistica tra gli elementi, viene ricondotta alla condizione del genio moderno. Nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795), Friedrich Schiller sostiene che il poeta moderno, a differenza di quello greco che viveva in completa armonia con la natura, è tristemente consapevole della frattura esistenziale che solo ragione e libertà potranno ricucire. Secondo il filosofo tedesco, infatti, quando l’umanità è diventata consapevole di non poter più sfuggire alla logica della Storia, si è separata dalla propria essenza che, ormai perduta, deve essere ricercata, inseguita e recuperata ai fini di un ritorno nostalgico a quella condizione ideale. Solo nell’antichità, l’età dell’ingenuità dove non esisteva contrasto tra spirito e materia, si viveva nel benefico stato di natura teorizzato da Jean Jacques Rousseau e che veniva poi riscontrato nell’arte greca dallo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann. La dolente scissione esistenziale conduce inevitabilmente a un’incapacità formale di rappresentare e comunicare la realtà in quanto, come scrive Alfonso Berardinelli nella prefazione al saggio: “La coscienza del poeta moderno è, per usare i termini di Schiller, compresenza, separazione e tensione non risolta di oggetto e idea”.(3) Nel momento in cui il significato si separa dal suo referente, il segno non ha più ragion d’essere.
Tale separazione, che definisce la condizione frammentaria e disorganica della dimensione esistenziale romantica, è anche il grande tema affrontato da Hugo von Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos (1902), “manifesto del deliquio della parola e del naufragio dell’io nel convulso e indistinto fluire delle cose non più nominabili né dominabili dal linguaggio”. (4) Con l’inizio del secolo breve, pare non ci siano più speranze alla perdita di quella che il giovane Hofmannsthal chiama la “grande unità”: l’illusione di una condizione coalescente è solo una “gonfia presunzione” che conduce inevitabilmente alla scissione tra sfera ontologica e linguistica. Egli vede nell’oggetto una dimensione mistica che racchiude più esistenze, ognuna carica di una valenza assoluta e pertanto qualsiasi forma di dominio linguistico è riduttivo nella sua immutabile fissità, incapace di penetrare nella profonda essenza delle cose e dunque inutile.
Nella prefazione al testo, Magris spiega che il protagonista/alter-ego dell’autore “abbandona la vocazione e la professione dello scrittore perché nessuna parola gli sembra esprimere la realtà oggettiva; il segreto flusso della vita lo afferra e lo compenetra a tal punto che egli si smarrisce completamente negli oggetti, si dissolve in una rivelazione del Tutto che distrugge l’unità della persona in un sussultante trascolorare di emozioni e reazioni”. (5) L’oggetto e la parola appartengo dunque a due mondi talmente distanti tra loro da condurre quasi Lord Chandos a una forma di mutismo ideale orale e scritto per salvaguardare l’essere da dogmi e definizioni astratte prive di storicità. Non resta che una sola utopica aspirazione, ossia la definizione di un linguaggio nuovo:
“Perché la lingua in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare, non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto”.(6)
La mostra LINGUAGGI COALESCENTI - Ithaka Won’t Fool Ya! intende confrontarsi con questi temi attraverso un approccio contemporaneo allo scopo di mettere in atto una possibile risoluzione della separazione. Nasce allora un dialogo tra codici che assume qui una duplice forma: il dialogo intra-personale di ognuno dei sette artisti, quello sempre più comune perché urgente tra tecniche e supporti diversi che si fondono tra loro per il fine creativo; e il dialogo extra-personale che mescola i molteplici metodi espressivi dei singoli artisti in un ritratto corale di quella che è la risposta di una giovane arte italiana al tentativo nuovo e non nostalgico di superare la scissione. Schiller sosteneva che “l’unità originaria (ingenua) infranta non può essere ricomposta immediatamente, neppure con la forza della creazione artistica. Questa forza stessa porta i segni della frattura e della perdita. Il creatore moderno insegue all’infinito un’integrità che è andata perduta per l’intero universo sociale, e che sarà anche per lui inaccessibile finché l’intera umanità non se ne sarà riappropriata”.(7) Si tratta allora di un cammino da percorrere a più voci attraverso una fusione creativa di linguaggi artistici capaci, forse, insieme, di dar vita alla lingua nuova di Hofmannsthal, una lingua che permetta di “entrare in un nuovo, significante rapporto con tutto il creato”. (8) È il lungo viaggio verso Ithaka di Kostantinos Kavafis, come un pensiero costante che non va affrettato.
Le opere esposte sono quasi tutte nuove produzioni che testimoniano di un’evoluzione creativa di segni, formati e supporti come la scultura in quadrelli di ferro di Antonio Barbieri che destruttura un corpo umano dalle vaghe reminiscenze arcaiche. Costituita da sedici parallelepipedi che ne definiscono la presenza umana in contrapposto, l’opera si definisce gradualmente attraverso una visione d’insieme multi-prospettica che nel complesso ricorda l’Apoxyómenos (330-320 a.C.) di Lisippo. Giocando tra pieni e vuoti, la struttura assume una connotazione eterea che permette allo sguardo di attraversarla e giungere alle altre opere presenti in mostra. Le quattro tele di Gennaro Branca costituiscono un polittico ideale definito dalle medesime dimensioni e da gradazioni cromatiche dense e decise. Qui immagine e parola si fondono fino ad esplodere in una varietà di segni, simboli e gesti astratti sempre connotati da uno sguardo attento verso microscopici processi naturali. Dalle vivaci tonalità anche le tre opere presentate da Vincenzo Frattini che procede con la pittura per sottrazione scavando nel colore per creare movimenti astratti frutto di un processo di stratificazione della materia. Le forme e i colori che l’artista fa emergere si moltiplicano e intensificano di opera in opera dinamizzando la fusione tra gli elementi fino a definire una netta separazione tra superficie e contenuto. Il video di Luca Mauceri, della durata di circa sei minuti e allestito in posizione verticale, è stato girato in Nepal con camera fissa. Il lavoro si concentra su un particolare comune di una tipica strada locale in cui un immenso groviglio di cavi elettrici appesi a un lampione nasconde o rivela gesti e azioni di vita quotidiana, in un contesto in cui, tra fissità e movimento, il dettaglio formale e concettuale è protagonista.
Marco Rossetti recupera foto d’archivio per svelarne frammenti poetici. In Bias #2, serie di nove fotografie nata da una ricerca condotta con alcuni psicologi, le opere sono tagliate a metà come pezzi di un puzzle che concretizzano in immagini i processi mentali di quattro casi clinici affetti da schizofrenia o bipolarismo. I suoi lavori consegnano il dominio dei ricordi alla mente che, in maniera inconsapevole e fugace, ne distorce la memoria perché condizionata da pregiudizio e dolore, mentre tracce rimosse o dimenticate sono impreziosite e protette da fasce in foglia d’oro. Ispirata dall’ottavo trattato sulla Bellezza dello spirito delle Enneadi di Plotino, Mia D. Suppiej presenta un trittico inedito che guarda al calcolo matematico della somma e della moltiplicazione come modalità prospettica unificante. In equilibro tra stratificazione materiale e immagine grafica, i tre moduli sono costituiti da due lastre di plexiglass stampate e dipinte a mano in cui sono inserite delle leggere stoffe colorate che fanno da sfondo. Il calcolo, da sempre eseguito con le dita delle mani, diventa gesto universale che invita a riflettere sulle dinamiche di interdipendenza, indivisibilità e mutua rivelazione nel rapporto tra l’uomo e il mondo esterno, perché “ognuno di essi contiene tutto in sé, e al tempo stesso vede tutto in ogni altro, cosicché ovunque è tutto, e ogni cosa è tutto”. (9) Infine, delle cinque tele di Viviana Valla, quattro costituiscono una serie inedita allestita insieme alla grande opera Chromophobia #3. Cifra dell’artista è l’utilizzo di post-it, materiale proprio di una forma di scrittura frammentaria che una volta applicato sulla tela viene ricoperto da una fitta trama di gesti pittorici, strappi e cancellazioni. Al rigore geometrico del mezzo espressivo si contrappone una stratificazione di materiali come la carta di giornale o immagini di cataloghi di mostre che vengono applicati tramite la tecnica del collage lasciando riaffiorare solo elementi marginali del supporto originale. Tracce del vissuto dell’artista si fondono e si confondono dietro una composizione geometrica astratta che tenta di celare fasi di produzione pittorica nonché sensazioni ad esse relative.
In tutte le opere presenti in mostra è sempre l’immagine, figurativa o astratta, manifestata o ricercata, fissa o in movimento, che domina la scena. Quando non riflettiamo per immagini e non ci affidiamo ai logici effetti della vista, dubitiamo della realtà, eppure non solo ciò che vediamo è reale. C’è allora da chiedersi se tutto parta dall’immagine e se, in mancanza di essa, la realtà sia pensabile. Forse è per questo che il pensiero, oggi così proiettato all’immagine, è impossibile senza il linguaggio: possiamo descrivere qualcosa soltanto se la vediamo e la riconosciamo, mentre quando non la conosciamo procediamo per associazioni e riferimenti a ciò che conosciamo visivamente. Nasce allora l’esigenza di una lingua che non sia solo verbale, teorica e astratta ma gestuale e segnica, infinitamente più complessa, perché più completa nella sua rappresentazione della realtà, più vera, più profondamente umana. Un linguaggio artistico, forse, o molteplici linguaggi che siano in grado di contemplare l’essere in tutta la sua pienezza, non nostalgici di un’ingenuità inconsapevole ma coscienti del senso vero delle cose e capaci dunque di un superamento prospettico della scissione schilleriana. Perché probabilmente lo scopo ultimo non è l’immagine ma “l’individuazione della forma, di quella profonda, vera intima forma, che si può intuire solo di là del gioco degli artifizi retorici, quella di cui nulla più si può dire, se non che ordina la materia che essa penetra, la eleva e genera a un tempo poesia e verità, un contrappunto di forze eterne, una cosa meravigliosa come la musica e l’algebra”.(10)
Artisti in mostra :
Antonio Barbieri · Gennaro Branca · Vincenzo Frattini · Luca Mauceri · Marco Rossetti · Viviana Valla · Mia D. Suppiej
Note
1 Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos. Milano: Rizzoli Editore, 1974, pag. 43.
2 Eschilo, Agamennone – Trilogia dell’Orestea, 458 a.C. Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli, 1921.
3 Alfonso Berardinelli, L’arcaica modernità di Schiller, prefaz. Friederich Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale. 1981, Roma: Il Melograno – Edizioni ABETE, pagg. 11-12.
4 Claudio Magris, L’indecenza dei segni, prefaz. Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos. Milano: Rizzoli Editore, 1974, pag. 10.
5 Ibid., p.10.
6 Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos. Milano: Rizzoli Editore, 1974, pag. 59.
7 Friederich Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale. 1981, Roma: Il Melograno – Edizioni ABETE, pag. 10.
8 Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos. Milano: Rizzoli Editore, 1974, pag. 51.
9 Plotino, Enneadi V, 8. A cura di Vincenzo Cilento, volume III, parte prima. Bari: Laterza & Figli, 1949.
10 Hugo von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos. Milano: Rizzoli Editore, 1974, pag. 35.
Valeria D’Ambrosio (1988, vive e lavora tra Parigi e l’Italia)
Storica dell’arte specializzata in arte contemporanea, cinema sperimentale e management culturale. Ha lavorato come assistente curatrice in musei, gallerie d’arte contemporanea e archivi audiovisivi tra cui la Scottish National Gallery of Modern Art di Edimburgo, la Pace Gallery di Pechino e Les Documents Cinématographiques di Parigi dove, in qualità di film curator, si è occupata della valorizzazione del patrimonio audiovisivo in collaborazione con la Cinémathèque française. Tra i giovani curatori italiani selezionati per Campo16, la formazione curatoriale promossa dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, ha insegnato Art & Society presso il Siena Art Institute, corso rivolto a giovani artisti internazionali per la produzione di progetti legati alla valorizzazione del patrimonio culturale toscano attraverso i linguaggi del contemporaneo. Attualmente affianca alla sua attività curatoriale una collaborazione con l’artista francese Chantal Stoman nella produzione di un progetto espositivo e di produzione cinematografica tra Tokyo e Parigi.